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Aggiornato: 25 giugno 2025
Perché non è avvenuto a me un tal caso? CLEMENZIA. Eh! In ogni modo, voi non lasciareste Isabella. FLAMMINIO. Io lasciarei, quasi che non t'ho detto Cristo, per una tale. E pregoti, Clemenzia, che tu mi facci conoscer chi è costei. CLEMENZIA. Son contenta.
CLEMENZIA. Dico che tuo padre m'ha detto ch'io venga per te; e ch'io voglio che tu te ne venga a casa mia, ché mandarò pe' tuo' panni; e non voglio che sia veduta cosí, se non che dirò ogni cosa a tuo padre. LELIA. Tu farai ch'io andarò in luogo che mai piú mi vedrete né tu né egli. Fa' a mio modo, se tu vuoi. Ma non ti posso finir di dire ogni cosa. Sento che Flamminio mi chiama. Signore!
CLEMENZIA. Tutta è stata volontá di Dio. È stato pur meglio cosí che averla maritata a quel canna-vana di Gherardo. Ma lasciatemi intrar drento, ch'io vegga come la cosa sta: ch'io lasciai gli sposi molto stretti; e son soli. Venite, venite. Ogni cosa va bene. STRAGUALCIA a li spettatori. Spettatori, non aspettate che costoro eschin piú fuore perché, di longa, faremmo la favola longhissima.
CLEMENZIA. Nol diss'io che questo ragazzo... Disfatta a me! LELIA. Ella me ne confortò; e amaestrommi del modo ch'io avevo a tenere; e accommodommi di certi panni che nuovamente s'aveva fatti per potere ella ancora, alcuna volta, come l'altre fanno, uscir fuor di casa travestita a fare i fatti suoi.
Venendovi un dí, fra gli altri, sentii che molto si rammaricò d'un suo allievo che morto gli era e molto diceva delle lode e ben servire suo; soggiungendo che, se un simile ne trovasse, si terrebbe piú contento del mondo e che gli porrebbe in mano quanto teneva. CLEMENZIA. Meschina a me! Io dubito che questo ragazzo non mi facci vivere scontenta.
Io dico ch'io non ho altro male che di Lelia mia, delicata, inzuccarata. SPELA. Io so che voi avete la febbre e state molto male. GHERARDO. A che te ne accorgi tu? SPELA. A che? Non vi accorgete che voi sète fuor di gangari, farneticate, affannate e non sapete che vi dire? GHERARDO. Gli è Amor che vuol cosí, non è vero, Clemenzia? Omnia vincit Amor. SPELA. Ohu! Che bel detto da napoletani!
Abbi un poca di pazienzia, se tu vuoi. CLEMENZIA. O non ti vergogni d'esser veduta cosí? LELIA. So' io forse la prima? N'ho vedute a Roma le centinaia. E, in questa terra, quante ve ne sono che, ogni notte, vanno in questo abito ai fatti loro! CLEMENZIA. Coteste son ribalde. LELIA. Oh! Fra tante ribalde non ne può andare una buona?
E sai che, per esser mio padre tenuto amico del conte Guido Rangone, non era molto ben veduto da alcuni. CLEMENZIA. Perché mi dici tu quel ch'io so meglio di te? E so che, per questa cagion, andaste a star di fuore al vostro podere del Fontanile; ed io ti feci compagnia. LELIA. Ben dici.
Come questa anima, laudando e ringraziando Dio, el prega che esso le parli de la virtú de la obedienzia. O fuoco e abisso di caritá! O etterna bellezza, o etterna sapienzia, o etterna bontá, o etterna clemenzia, o speranza, o refugio de' peccatori, o larghezza inextimabile, o etterno e infinito bene, o pazzo d'amore! E hai tu bisogno della tua creatura?
LELIA. Alla tavola, alla camera. E conosco essergli venuta, in questi quindici dí ch'io l'ho servito, in tanta grazia che, se in tanta gli fusse nel mio vero abito, beata a me! CLEMENZIA. Dimmi un poco: e dove dormi tu? LELIA. In una sua anticamara, sola. CLEMENZIA. Se, una notte, tentato dalla maladetta tentazione, ti chiamasse ché tu dormisse con lui, come andarebbe?
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