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E il Governo impaurito di quella propaganda, ferocemente insaniva, ordinando sequestri, sciogliendo associazioni e cacciando in prigione i migliori patrioti; di ciò pago, faceva spargere calunnie di accoltellatori assoldati dal partito mazziniano a dare di piglio negli averi e nel sangue dei cittadini; e costringeva, d'accordo col Bonaparte, il Governo federale a cacciare gli esuli raccolti nel Canton Ticino .

«Da poco in qua i pochi Russi viaggianti si fermano in Isvizzera, nel Canton Ticino, che è come un pezzo di Italia, a Lugano, citt

FR. Di qui puoi conoscere ancora le reliquie dell'antica superstizione, se ti ricorderai: Su i notturni canton delle cittadi Ecate aver gridato. La notte era dedicata a simil preghi, e finivansi come finiva il giorno. Onde è quel verso: Cacciommi coi cavai l'iniquo giorno. AP. Vi è forse sotto qualche senso più nascosto. FR. Che? AP. Quello di che fece menzione Menandro.

Basta, di quelle adunanze Marfisa lasciò un itinerario ben da risa. In quel caffè venien certe figure da' paladin antichi discendenti, abitanti in castei pien di fessure, puntellati i canton, rotti e pendenti, con le finestre metá di scritture, metá di vetri avanzati dai venti, e con porte che, chiuse, non che a' sorci, non impedien l'ingresso a' cani, a' porci.

Seppi all'indomani che il innanzi erano partiti da Lugano alla volta dei confini lombardi, da quindici a venti giovinotti, per tentare uno di quei moti insurrezionali che il fantastico patriotismo del Mazzini sognava tanto più facili e sicuri quanto meno verosimili. Tutte le spedizioni organizzate a quell'epoca nel Canton Ticino abortirono miseramente. Ma il Modena, cuore d'artista, mente poetica, educata all'idealismo del dramma e infervorata dalle splendide utopie mazziniane; il Modena credeva, sperava attendeva l'istante a lui segnato per lanciarsi nuovamente nel campo della azione; e frattanto, declamando al teatro di Lugano la Divina Commedia di Dante, le liriche del Berchet ed altri frammenti di poesia repubblicana, sovveniva di denaro le reclute che gi

Ottobre, 25. Un giorno in Roma, nel 1849, mentr'io era ancora semplice rappresentante del popolo e senza parte nella suprema direzione delle cose, saliva a vedermi un giovane ufficiale napoletano. Era Carlo Pisacane. Mi si presentava senza commendatizie; m'era ignoto di nome e, bench'io ricordassi di averlo alla sfuggita veduto un anno prima fra quel turbinìo d'esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul Canton Ticino, io non sapeva gli studî teorici e pratici, la ferita di palla austriaca che lo aveva tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, i principî politici serbati inconcussi attraverso l'esilio e la povert

La poveretta lo lasciava stare, e in un canton facea di pianto un lago. Ed egli si metteva a berteggiare. Cosí, ben mio dicea, quel pianto pago; e colle fanti in sul viso di lei faceva cose ch'io non le direi. Il duca Namo nella sua vecchiaia avaro ed usuraio s'era fatto.

SANTINA. Mi fai star tutta la notte in un canton del letto, sola; e se per disgrazia ti tocco le gambe, subito: Fatti in , che mi rompi il sonno, mi fai caldo. Io non sono storpiata mi puzza il fiato. GERASTO. Tanti figli che abbiam fatto, dimostrano se ti abbi trattato male. SANTINA. Questo fu cosí nel principio. GERASTO. Or son vecchio, la complession non mi aiuta: vuoi che mi muoia?