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Io tolgo adesso gli occhi da' miei fiori, dalla mia Guida, dalla mia fiaschetta, e fremo agli ultimi brividi freddissimi che m'ha lasciato la doccia delle 11 ore. La mia escursione è incominciata da Biella, s'è spinta su al Corno del Camoscio vicino al Monte Rosa, è calata ad Orla, ha voluto il riposo allo Stabilimento Idropatico d'Oropa.

La fanciulla è una falciatrice di fieno. Vogliamo, o cara, copiarla sull'albo? Ella porta una gonna di cotone bleu, col busto compagno, colla camicia bianca stretta al collo con pieghe gelose: un fazzoletto rosso è allacciato sul capo con una foggia bellissima, da lasciare due lembi svolazzanti sulle orecchie. Non guardo punto a' suoi lineamenti: tutto è nell'espressione, e questa dice: Ho la contentezza del cuore. E fa tanto piacere discorrere con essa! Perchè la fanciulla non è ritrosa, perchè dice che ha tante mucche e tanto fieno falciato, e i fratelli e il babbo lavorano giù negli opifici del Biellese. La vita le va per benone, e lo sposo, grazie alla Madonna d'Oropa, sar

L'Ospizio d'Andorno è detto di San Giovanni ed è assai insù nella valle del Cervo, ad un'ora e mezza di vettura dal borgo. La montanara abbella il suo alp con qualche medaglietta di San Giovanni e d'Oropa: i nuovi arricchiti innalzano ville sontuose e cooperano all'edilizia pubblica, aprendo stradoni, costruendo ponti, facendo segare marmi e pietre per cimiteri e chiese.

È questa la purissima Acqua dei monti; La cristallina lagrima D'äeree fronti. Anche le vette piangono Ed han sorrisi, Ed i cipressi alternano Ai fiordalisi... L'acqua è l'ingenua figlia Dei cicli azzurri, E parlano d'ambrosie I suoi susurri. L'acqua è la figlia tenera D'inferociti Giganti e, quasi a molcerli, Lambe i graniti. Madonna d'Oropa, 1876. È la sera.

Discorriamo d'Oropa. O meglio ancora, avviamoci. È una delle più belle passeggiate, per la strada pittoresca, e perchè la meta, celata nel seno del monte, invoglia a continuare sempre il cammino per iscoprirla. Prima del 1620 non era il caso di dire avviamoci. Oh no! bisognava baciare i cari e la soglia della casa, poi mettersi al pellegrinaggio, per selve, per frane, per stagni, per ciglioni di precipizi. Che parolacce le sono queste? Oggidì, grazie all'abate Bertodani, si passeggia su una strada larga, liscia, ombreggiata, ad ogni tanto facendo sosta al parapetto per contemplare o una cappella, o giù la vallea col mugghiante Oropa, o la vetta su del Mucrone, oppure per cogliere una margheritina e per interrogarla. Purchè si eviti il sabbato, giorno in cui i valligiani salgono a vere processioni, e l'ora in cui passano gli omnibus fragorosi. E va, e va: il santuario si scopre solo all'ultima voltata della strada: apparisce un aggregato immenso e basso di fabbriche diverse, tutto bigio, con una cancellata a lance d'oro, sullo sfondo di un monte arsiccio. Tutti quelli che lo descrissero usarono le cifre, dicendo le misure, la fondazione, gli ampliamenti, e via: io vorrei adoperare la matita, ma non so proprio da dove incominciare, so metter giù le linee da ingegnere o da prospettico. Pazienza! chiudo l'albo e m'abbandono alle impressioni. Il primo cortile ha l'aria animata di un luogo di fiera: la piazza, da cui vedesi il piano del Vercellese e del Novarese, la scalea barocca piena di gente oziosa e sdraiata, la fronte dell'edificio reale colle statue dipinte e gli stemmi d'oro, i porticati dorici, tutto mi piace e mi ricorda qualche cosa di Genova: il secondo cortile colla fontana, la chiesa e i pratelli mi d