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Aggiornato: 17 maggio 2025
E se per disgrazia dirai nulla di ciò che ti ho detto a Gerasto, guai a te! il pezzo maggior sará l'orecchia. NARTICOFORO. Mi partirò adesso adesso. ESSANDRO. Verremo insino a Roma ad ucciderti: non so io che abiti vicino al Culiseo? NARTICOFORO. Non certo: alla Rotonda, sí. ESSANDRO. Cosí prometti, fa' che l'attendi, se non..., misero te!
Almeno l'avessi saputo un anno prima, ché a poco a poco mi avessi avezzo a disamarla. PANURGO servo, ESSANDRO. PANURGO. Veggio Essandro di mala voglia. Padron caro, che cosa avete? ESSANDRO. Oimè, son morto! PANURGO. Cattivo principio! cada questo augurio sovra chi ci vuol male. ESSANDRO. È pur caduto sovra di me, ché non è sí misero stato col quale non cambiassi il mio.
Ti ricordo che non senza cagione ti han posto nome Fioretta, accioché tu ti accorga che questa tua bellezza se ne va come un fiore: la mattina è bello, la sera languido e secco. Or che sei nella primavera, sappilo conoscere, che presto verrá l'autunno, sfronderai, diverrai secco, e non serai buono né per insalata né per salsa. ESSANDRO. Che vorresti dir per questo?
CLERIA. Dolcissimo Essandro, io non vorrei, per essermi cosí volentieri condotta a ragionar con voi, vi cadesse nell'animo qualche sospetto della mia onestá: ché certo non mi sarei ridotta a questo termine, se non avessi fatto prima deliberazione di esser vostra; e se ben son in potestá di mio padre e a lui tocca disponer di me quel che ne vuole, pur se a me ne resta qualche particella, ve la dono tutta, né vo' viver se non vostra.
Che mi curo io di vita? che di giustizia? Dieci anni di vita piú o meno non m'importa. ESSANDRO. Mi dicono che è romano e maestro di scuola, e che si chiama Arcinfanfano. Dimandarò ogniuno che incontro, accioché per negligenza non resti di trovarlo. ESSANDRO. Vien qua tu: perché fuggi? NARTICOFORO. Voleva andare, amicto, exonerare il ventre delle superfluitá della digestione.
Mi disse iersera che all'alba me l'arebbe recate, e omai è ora di pranso e non lo veggio comparire; e mi fará partir per Salerno molto tardi. Andrò in sua bottega. Chi vuol, vada. ESSANDRO, Panurgo. ESSANDRO. Sí che, di grazia, narrami l'inganno che hai tu pensato per disturbar questo matrimonio. PANURGO. È tanto a proposito e grazioso che mi muoio delle risa pensandovi.
ESSANDRO. Or io vedendo che la barba tuttavia spunta fuori, come hai tu detto, non posso star piú nascosto in questo abito; e il peggio è che Gerasto, il padron vecchio, è cosí sconciamente innamorato di me che fa le pazzie. Tu lo sai: non mi incontra mai sola per la casa che alla sfuggita non mi tocchi e solletichi.
PANURGO. Ed è possibile che siate cosí povero di partiti che non sappiate trovar rimedio al vostro male? ESSANDRO. Se non ho l'animo meco, come posso trovarlo?
CLERIA. Come non ti conosco? cosí tu conoscessi l'amor che porto a tuo fratello, che trovaresti modo di darmi qualche rimedio. ESSANDRO. O Dio, che non è cosa che piú desii al mondo, che darti questo rimedio. CLERIA. Se ben tu dici cosí, pur ben m'accorgo non essere amata quanto merita l'amor mio.
NEPITA. Dunque sei giunto a quanto desiavi, sei felicissimo. ESSANDRO.... Ahi, che non fussi mai stato! Ho fatto come l'infermo che sempre appetisce quel che gli nòce. Pensava io miserello che, accostandomi a quello incendio onde tutto brugiava, la mia focosa brama fusse estinta; ma io mi sento piú acceso che mai.
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