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TRASILOGO.... Di' a Pelabarba, se venissero sergenti, capitani, colonnelli, maestri di campo o altre persone di conto a dimandarmi, gli dica che son ito a Palazzo, che S. E. tien Consiglio di Stato questa mattina. Tu compra robbe accioché s'apparecchi per questa sera, poi vieni a trovarmi dove tu sai. TRASILOGO. Ma io veggio Mastica. O Mastica mio galante!

DON IGNAZIO. Talché noi abbiamo gentilmente burlato il fratello, il quale si pensava burlar me. SIMBOLO. Se non era il mio consiglio, ti saresti trovato in un gran garbuglio. AVANZINO. Padrone, datemi la mancia, ché me l'ho guadagnata davero. DON IGNAZIO. E di che cosa? AVANZINO. Non la dico, se prima non me la prometteti. DON IGNAZIO. Ti prometto quanto saprai tu dimandarmi.

GIACOCO. Parlammo della dote, che è la ionta dello ruotolo; ché l'oro nnaura e noropella tutti li defietti delle mogliere, che se fosse brutta, desonorata, sopervia e fastidiosa, l'oro la fa parer bella e complitissima. LIMOFORO. Io li darò dote quanto saprá dimandarmi, che non ho altra figlia.

Il tempo che ci resta fra l'ora sesta e adesso, noi dobbiamo sagacemente spenderlo. V'è ancora da lavorare? Poichè tu mi dai tante fatiche lascia ch'io rammenti la tua promessa ancor non mantenuta. Che c'è di nuovo, spirito bizzarro, e che puoi dimandarmi ora? La mia libert

Poi daccapo una distrazione inesplicabile, come quella di accorgermi che avevo la barba lunga e di dimandarmi dove avrei fatto colazione.

RUFINO. Ecco Trappolino, patrone. CURZIO. Fa' che tu non eschi di casa e, se venissi persona a dimandarmi, fatti lasciare l'imbasciata. Háime inteso? TRAPPOLINO. Signor . CURZIO. Vieni con esso meco, Rufino, ch'io voglio ch'andiamo a vedere se potessimo trovare qualche danaio in presto da chi sia. RUFINO. Io dubito che noi perderemo i passi, se andamo a speranza de altri. CURZIO. Come! Perché?