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Romussi si era seduto sul suo sedile di legno con le lenzuola sulle braccia e l'asciugatoio in mano dicendo: «SaccorottoDon Davide, di temperamento sensibilissimo, che si lascia commuovere, o trasportare, o abbattere dagli avvenimenti, sarebbe dato fuori a piangere se non fossimo stati presenti.

Dovevamo aver fame, perchè eravamo ancora con l'ultima costoletta e l'ultimo risotto che avevamo mangiato al Castello. Romussi mi fece sapere che aveva divorata la sua pagnotta fino all'ultima briciola. Coi suoi denti da mastino e il suo apparecchio digestivo sempre in ordine, ne avrebbe mangiata un'altra. Gli altri la sbriciolarono. Minestra! Uh! sentii dire. Era un uh! che traduceva la nausea.

L'ultima sera, disperati di non partire mai e determinati a non pensare più alla partenza, si proposero di mangiare tutti assieme il pollo alla cacciatora. Allora, disse Romussi, vedrete che ci manderanno via. Il pollo alla cacciatora è sempre stato l'ordine di partenza. In Castello abbiamo ordinato il pollo alla cacciatora e ci hanno fatto partire prima di mangiarlo.

Tra gli intimi di Romussi, vi era il professore Pietro Panzeri, direttore dell'Istituto dei rachitici, che piangeva come un ragazzo. Il vagone cellulare era nuovo o pennelleggiato di fresco. Perdeva un odore di vernice che faceva turare il naso. Don Albertario, grosso come era, non riuscì a mettere il piede sul predellino che aiutato.

Di tanto in tanto veniva qualcuno di loro a sbattercelo indietro con un sostantivo energico. Ma il più delle volte dovevamo respingerlo noi con la punta delle dita. Alla stazione di Pavia, una voce umana riuscì a intenerirci fino alle lagrime. Signor Romussi, signor Chiesi, posso fare qualche cosa per loro e per i loro compagni? La persona che parlava era invisibile.

E questo mio articolo, signor Romussi! È sul «bancone». C'è tanta materia da perdere la testa. Ecco, veda, buttiamo via dei telegrammi per mancanza di spazio. Il signor Edoardo Sonzogno lo chiama dabbasso,

Carlo Romussi è nato a Milano il 10 dicembre 1847. La tristezza di Natale. Ci siamo alzati, come gli altri giorni, al suono del din din, din dan della campana del reclusorio. I miei compagni parevano tante mutrie. Rispondevano al buon giorno e agli augurii con dei buon giorno e degli augurii secchi, come gente che si sarebbe morsicata se non ci fosse stato di mezzo il galateo.

La loro passeggiata era per me uno studio. Notavo il loro modo di andare in su e in giù e chiamavo Romussi e don Davide Albertario a constatare che il loro passo rivelava il galeotto. Dimostravo loro come un Jean Valjean avrebbe potuto essere scoperto dal segugio di polizia anche vent'anni dopo, vestito con eleganza, in una sala immensa affollata di signori che la percorressero conversando.

Federici era riluttante. Lui e Romussi, nel viaggio di traduzione, avevano imparato che per le strade, di giorno, si attira l'attenzione di tutti i passanti. Vinse l'aria libera. Uscimmo e fummo contenti. La gente sostava sulle botteghe, i ragazzi ci correvano dietro, i passanti si fermavano a vederci, alcuni commentavano, ma noi passavamo senza darcene pensiero. Ormai ci avevamo fatto il callo.

Romussi e Chiesi vennero chiusi in celle separate al secondo raggio. Il secondo giorno vedemmo arrivare in infermeria i deputati Turati e Bissolati. Il resto ti è troppo noto perchè io sciupi dell'inchiostro. Al Tribunale di Guerra. Il primo Atto d'accusa, senza commenti.