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Mio buon signore, disse la sconosciuta, accennandogli con atto leggiadro, che volesse chetarsi un tratto, io vi prego, per quella cortesia che m'avete dimostrata fin qui, ad usar pazienza ancora un tantino. Tutto quello che è avvenuto stanotte ha bisogno di una spiegazione, e voi, gentile come siete, mi darete agio ad esporre le mie ragioni.

ERASTO. Ogni contento e felicitá che posso aver in questa vita è la tua presenza, anima mia! CINTIA. M'avete comandato per Cintio, vostro fidelissimo amico, che fusse venuta qui in finestra: ecco vi ubbedisco, perché la vostra bellezza è fatta padrona del cor mio, ogni vostro desiderio è fatto padron del mio. ERASTO. E quando io potrò compensarle cotanta cortesia?

Paquita era in piedi, vicino alla finestra, pallidissima e con la fisonomia talmente diversa dalla solita, che perfino la sua bellezza aveva quasi mutato carattere. La sua voce era malferma assai, quando disse: Signor duca.... Giorgio impallidì. Signor duca, voi m'avete ingannata, ma io vi perdono e per prova ho voluto vedervi ancora, ma come vi scrissi, questa sar

Oh Signore, mi si squarcia il cuore... troppo viva è la piaga che m'avete aperta!... Dio, Dio mio, richiamate a voi me, non lei!... giovane, bella, gentile! Oh Signore, accogliete la preghiera mia... lasciatela a' suoi cari... alla madre che dispera!!! Suvvia, Tecla, non v'accorate troppo: Iddio prova il vostro affetto... inchinatevi a lui! Zelmira forse...

In che modo? Stamani è andato da lui il Ceretti, quella perla di giovinotto che m'avete messo voi per le mani, ad offrirgli di comperar lui la Montalda. Lo ha accolto come si accoglie il salvatore; ma quando ha udito che il Ceretti non intendeva spender più di quarantamila lire, gli son cadute le braccia.

CINTIA. Dimandatelo a voi stesso che l'avete avuta in braccio tante volte: niuno sa meglio di voi che la conoscete come me. ERASTO. Non la potei mai veder bene perché eravamo all'oscuro o con un lumicino: cosí accordato fra voi per ingannarmi, come m'avete giá ingannato. Ma io vorrei che, imparando il mio linguaggio, mi dicessi chiaro chi fu quella.

Il padre Anacleto guardò come trasognato quel biondo monachino che lo aveva messo con le spalle al muro. Voleva fargli la lezione, e per contro l'aveva ricevuta. E come se ciò non bastasse, quel malizioso padrino, dopo averlo così ridotto, gli diceva con piglio quasi beffardo: a voi, ricordate il perchè m'avete fatto venire a questo colloquio; debbo restare, o partire? Partire! Era presto detto.

Avete il torto a star cosí sul rigor del primo decreto: m'avete cosí inacerbite le piaghe dell'anima che me ne sento morire. ERASTO. Seguite. Par che non abbiate parola: che mutazione è questa? voi mi parete mezo morto! CINTIA. Sento un svenimento d'animo che mi pone in forse tra il vivere e il morire. ERASTO. O Dio, che cosa è questa? Cintio mio, rivenite! CINTIA. Ho fretta di partirmi; adio.

GIACOMINO. Padre, m'avete a fare un'altra grazia, di perdonare a Cappio, perché io l'ho sforzato a fare quanto s'è fatto. E se Pseudonimo falsificò la sua persona, tutto fu per mia cagione.

Il giudice aveva parlato molto severamente. Roberto Vérod taceva, a capo basso. Ma torniamo a ciò che preme per il momento. Non m'avete detto che la vedeste la vigilia della morte? , nel pomeriggio. Da lei? . Che cosa le diceste?... Parlaste del vostro amore?...