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Aggiornato: 17 giugno 2025
Il povero cieco non fece atto di trattenerla, ma parve raccogliersi in sè stesso come per meglio udire il fruscio della veste ed il passo leggiero, e quando si avvide che quel fruscio e quel passo si dirigevano verso l'uscio, sospirò forte. Allora Ernesta si arrestò sulla soglia, stette un istante dubbiosa, e ritornò nel mezzo della stanza.
Per via era stata sorretta dall'entusiasmo del sagrificio; ma come fu a Milano, Ernesta sentì venir meno il proposito preso, e solo per quella specie di forza d'inerzia che continua gli effetti della prima determinazione, giunse sino alla soglia di casa sua. Entrò.... le batteva il cuore forte.
Risultato ultimo d'una discussione filosofica. Da molti giorni Ernesta non era uscita di casa. Ti ammalerai aveva detto il cieco, perderai il roseo delle guancie, ed io non potrò nemmeno accorgermene per dirti: «cattivella, vedi!» Quel pomeriggio l'infermiera si arrese, accettò di scendere in giardino a fare una passeggiata, a patto che il dottor Agenore rimanesse a tener allegro l'ammalato.
Ah! ed è dunque gravemente ammalato negli occhi quel povero signor Leonardo? domandò Virginia rivolgendosi direttamente al dottore. Disgraziatamente sì, rispose Agenore non comprendendo il significato dell'occhiata della padrona di casa è minacciato da una cateratta. La sensibilissima Virginia si lasciò sfuggire un piccolo grido di terrore. Cieco!... Cieco!... E tu non mi dicevi nulla, Ernesta?
Il cieco si curvava innanzi ad ascoltare, e ripetè sottovoce: Ernesta! Tacque un istante e di nuovo chiamò a fior di labbro: Ernesta!
Ernesta non disse più nulla, spinse l'uscio socchiuso della casetta ed entrò in un salotto, salutata al solito dai canarini che svolazzavano per la gabbia a farle festa. Ma questa volta la bella non badò al cinguettìo carezzevole, e si lasciò cadere sopra un divano in atto di stanchezza. Agenore le sedette a fianco, stette un pezzo a guardarla in silenzio, poi le prese la mano, che non si ribellò.
La mestizia di Ernesta, cui le parole del medico suonavano dure per la prima volta, faceva una meschina figura al confronto di quell'acuto dolore. Si parlò ancora e sempre di cateratte; Virginia era curiosissima, ed il dottore Agenore, impastato egli pure di creta come tutti i dottori, sapeva di non trovar ogni giorno un'occasione di sfoggiare le sue reminiscenze scolastiche.
Quel giorno Agenore anticipò la visita, parlò al suo ammalato con una vocina anche più carezzevole del solito, tanto da farsi rivolgere da Ernesta tenere occhiate riconoscenti, a cui due giorni prima non avrebbe forse saputo dare la giusta interpretazione.
Fu in una di queste tregue che venne recata una lettera col bollo di Milano. Era della cuginetta. Diceva in caratteri calligrafici alla cara Ernesta che «il cuore le consigliava di scriverle, e che scrivendo essa sapeva di compiere un dovere;» annunciava la cecit
Aveva trovato! I modi di Ernesta, tra il beffardo e il romantico, quello spasimo nervoso finito in un singhiozzo, la stessa studiata indifferenza con cui la bella l'aveva accolto, tutto concorreva nella gran rivelazione. Agenore non era un gaglioffo; anche cedendo alle lusinghe di questo fantasma, non attribuiva scioccamente la sua fortuna al merito della propria testa lanosa e del proprio naso affilato; conveniva anzi con rara modestia che la cosa era andata così perchè non poteva andare altrimenti, vale a dire perchè Ernesta era nell'et
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