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Aggiornato: 7 ottobre 2025
Martino Alonzo Pinzon fece di più: intuonò ad alta voce il Gloria in excelsis, a cui tosto risposero gli equipaggi delle tre caravelle. La terra si vedeva così chiaramente, e così vivo era l’entusiasmo di tutti, che l’almirante stimò necessario di lasciare il suo rombo, che era stato sempre il ponente, governando per tutta la notte a garbino.
Non ci ho mai pensato.... Non hai mai veduto i dodici cavalli delle scuderie, il lusso degli equipaggi, lo sfarzo signorile della casa, i numerosi domestici.... Ho veduto... e non ho veduto... ho veduto materialmente cogli occhi, ma non ci ho mai arrestato il pensiero.
Nel tempo istesso Montoni ordinò di preparare gli equipaggi di buon'ora, perchè voleva pranzare a Torino.
Le carrozze furono di buon'ora alla porta: il fracasso dei servitori che andavano e venivano per le gallerie, svegliarono Emilia da un sonno affannoso. Il suo spirito agitato le aveva rappresentato tutta notte le immagini più spaventose ed il più tristo avvenire. Fece ogni sforzo per bandire queste sinistre impressioni, ma passava da un male immaginario alla certezza d'un male reale. Rammentandosi che aveva lasciato Valancourt, e forse per sempre, il cuore le mancava a misura che la sua immaginazione se lo rappresentava lontano; questi sforzi spargevano sulla di lei fisonomia un'espressione di rassegnazione, come un legger velo rende la bellezza più interessante nascondendone soltanto qualche debole tratto. Ma la signora Montoni notò il di lei pallore straordinario, e la rimproverò severamente; disse alla nipote che male a proposito si era abbandonata ad inquietudini fanciullesche, che la pregava di osservare un po' più il decoro, e non lasciar trasparire che fosse incapace di rinunziare ad un affetto poco conveniente. Fu servita la colazione: Montoni parlò pochissimo, e parve impaziente di partire. Le finestre della sala guardavano sul giardino, e nel passarvi vicino, Emilia non potè fare a meno di dare un'occhiata a quel luogo, ove, nella notte precedente, erasi separata da Valancourt. Gli equipaggi erano gi
Dopo qualche momento, su quel medesimo sentiero aperto da loro, camminava a passo, venendo da Milano, e parimenti rivolta all'Adda, un'altra numerosa cavalcata. Eran le sei famiglie milanesi nominate dal conte Crivello. Molti uomini a cavallo avvolti in grevi pellicce fin sotto gli occhi e molte donne nelle lettighe portate dalle mule. La ricchezza degli equipaggi attestava l'alta loro condizione; ma non era voce che sorgesse fra tutte quelle persone. Gli uomini, chiusa la bocca nei mantelli, tenevan la testa bassa, o volgean l'occhio intorno con quell'atto meditativo e grave che d
Di lì a tre o quattro giorni arrivava a Venezia Gasparo Rialdi. Arrivava da Pola insieme con qualche altro ufficiale di marina, sopra un piccolo legno, e dopo esser sfuggito non senza fatica agl'incrociatori austriaci. La gioia di trovar la patria libera, di poter combattere per una causa santa era amareggiata a quei generosi dal non esser riusciti a farsi seguire da tutta la flotta. Alle prime voci di rivoluzione, essi dicevano, s'era manifestato un vivo fermento negli equipaggi e in gran parte degli ufficiali ch'erano italiani di sangue e di pensieri. I più arditi, tra cui il Rialdi, sostenevano doversi salpar subito per Venezia, per partecipare alla lotta, se l'esito era ancora incerto, per recare al nuovo ordine di cose il sussidio d'una forza disciplinata, se la battaglia era vinta. Ma la maggioranza fu d'altro parere. Non bisognava precipitare, bisognava aver ragguagli più esatti; forse erano rumori sparsi ad arte; era impossibile che i compagni i quali si trovavano a Venezia non mandassero qualche avviso, che un Governo nazionale il quale per avventura si fosse stabilito col
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