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Aggiornato: 26 giugno 2025
LAMPRIDIO. Non mi quadra, mi batte l'occhio dritto; e mi fu referito nel viaggio che si maritava con non so chi capitano suo vicino. GIULIO. Io non so nulla di ciò: questa è la casa del capitano che dite, e questi che viene è suo servidore; volete che gli ne dimandi? Non rispondete? volgete l'animo a me. LAMPRIDIO. Non l'ho meco. GIULIO. Richiamalo a te.
"Ciò posto, è mio desiderio che Granatelli nostro, se è a Londra, o altri a vostro arbitrio (purchè attivo) vada al Palagio di Buckigam, trovi il colonnello Philipps, gli chieda in mio nome il m. s. che è a mia disposizione, e gli dimandi se S. A. R. lo gradirebbe stampato; nell'affermativa chiarisca se anche la dedica potr
«Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, ch’io metta il nome tuo tra l’altre note». Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!». Allor lo presi per la cuticagna e dissi: «El converr
Alora, raguardando la divina bontá con l'occhio della sua misericordia el desiderio e la fame di quella anima, diceva: Dilectissima figliuola mia, Io non so' spregiatore del desiderio, anco so' adempitore de' sancti desidèri. E però Io ti voglio dichiarare e mostrare di quel che tu mi dimandi.
VIGNAROLO. Rispondi a me tu prima: chi sei che me ne dimandi? GUGLIELMO. Padron mio caro, non entrate in còlera: di grazia dite voi, chi sète? VIGNAROLO. Non ho da render conto ad un uomo vile come tu sei; ma tu che vuoi saper chi sia, tu chi sei? GUGLIELMO. Il padron di questa casa! VIGNAROLO. Tu menti che ne sii padrone, ché il padrone ne son io. Quanto è che ne sète padrone?
Voi volete dire della mia conversazione? Per esempio! voi sareste la prima che non ne gustereste il profumo. Il duca, lui, ne fa le sue feste. Egli mi consulta. La finezza del mio spirito lo penetra. Io mi aspetto ch'e' mi dimandi un giorno che io gli detti i suoi dispacci! Io gli ò fatto rimarcare che l'ambasciadore d'Inghilterra
MANGONE. Centocinquanta. FILIGENIO. È caro. MANGONE. Di questo che vi dico ora, non ne torrò un quattrino ché farei torto a me stesso in dimandarne meno, e voi a darmegli: cento scudi. FILIGENIO. Ed io non vo' far torto a te che ne dimandi il giusto, né a me che lo conosco, né al merito del schiavo. Eccoti cinquanta scudi: con l'arra che avesti prima, giongono al prezzo che m'hai chiesto.
ALESSANDRO. Come ponno essere amici chi ne spezzano le porte? PANFAGO. Aprite tosto! ALESSANDRO. Chi sei? PANFAGO. Il soverchio bere ti ará tolto il vedere. ALESSANDRO. Chi dimandi tu? PANFAGO. Pirino, dico. ALESSANDRO. Non è in casa, è uscito poco fa. PANFAGO. Ha egli forse alzato il fianco? ALESSANDRO. Sí bene. PANFAGO. Non ha lasciato alcun bocconcello, alcun miserabil rilevo per me?
«Vivo son io, e caro esser ti puote», fu mia risposta, «se dimandi fama, ch’io metta il nome tuo tra l’altre note». Ed elli a me: «Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!». Allor lo presi per la cuticagna e dissi: «El converr
per te si veggia come la vegg’ io, grata m’è più; e anco quest’ ho caro perché ’l discerni rimirando in Dio. Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso com’ esser può, di dolce seme, amaro». Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso mostrarti un vero, a quel che tu dimandi terrai lo viso come tien lo dosso.
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