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Non per aver a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore potesse, risplendendo, dir
Quinci comprender puoi ch’esser convene amor sementa in voi d’ogne virtute e d’ogne operazion che merta pene. Or, perché mai non può da la salute amor del suo subietto volger viso, da l’odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogne effetto è deciso.
Lo mio maestro e io e quella gente ch’eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».
Quinci comprender puoi ch’esser convene amor sementa in voi d’ogne virtute e d’ogne operazion che merta pene. Or, perché mai non può da la salute amor del suo subietto volger viso, da l’odio proprio son le cose tute; e perché intender non si può diviso, e per sé stante, alcuno esser dal primo, da quello odiare ogne effetto è deciso.
Parev’ a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro sé l’etterna margarita ne ricevette, com’ acqua recepe raggio di luce permanendo unita. S’io era corpo, e qui non si concepe com’ una dimensione altra patio, ch’esser convien se corpo in corpo repe,
quanto per mente e per loco si gira con tant’ ordine fé, ch’esser non puote sanza gustar di lui chi ciò rimira. Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l’un moto e l’altro si percuote; e lì comincia a vagheggiar ne l’arte di quel maestro che dentro a sé l’ama, tanto che mai da lei l’occhio non parte.
che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ’l ben disposto spirto d’amor turge; così vid’ ïo la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch’esser non pò nota se non col
quanto per mente e per loco si gira con tant’ ordine fé, ch’esser non puote sanza gustar di lui chi ciò rimira. Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l’un moto e l’altro si percuote; e lì comincia a vagheggiar ne l’arte di quel maestro che dentro a sé l’ama, tanto che mai da lei l’occhio non parte.
E ’l duca mio distese le sue spanne, prese la terra, e con piene le pugna la gittò dentro a le bramose canne. Qual è quel cane ch’abbaiando agogna, e si racqueta poi che ’l pasto morde, ché solo a divorarlo intende e pugna, cotai si fecer quelle facce lorde de lo demonio Cerbero, che ’ntrona l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Non per aver a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore potesse, risplendendo, dir
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