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Aggiornato: 9 maggio 2025


Alcun de' paladin si prova l'armi in faccia alla sua dama afflitta e mesta, che dice: Voi volete tormentarmi; mi sembrate un tincone in una cesta. Se m'amate, un favor dovete farmi: scansatevi di abate con la vesta. A corte il paladin fedi ha mandate ch'ei s'era messo il collarin da abate. Orlando irato fa gobbe le spalle, e me' che può rattaccona le cose.

«Avummaria, grazia plena, e dominus teco...» Vito?!... Ch'è stato? Ma io che t'aggio fatto?... Io nun t'aggio fatto niente!... Almeno dimme che t'aggio fatto!... E che mme vulive fa? Chi te sta dicenno niente? «Vurria sapere si certo m'amate, O pure pe cuperchio mme tenite, Calice d'oro mio!...» Che staie dicenno? Niente. Sto cantanno... Accussì se canta a Capua? Embè... È meglio Napule.

Non è gran tempo questo che vi domando. Inviamo Trinca, intanto, in casa vostra, e sappiamo che dica o faccia Cleria, perché io ti vo' far compagnia. ATTILIO. Quel nome di Cleria, che fu prima lo spirito della mia vita, or è morte della mia vita; però, se m'amate, non me la nominate piú. Amor prima ci giunse, or crudel fortuna ci disgiunge; ho altra speranza, che sol morte ne congionga.

ARTEMISIA. Anzi, se mi amate, dovete piangere meco, ché quando duo amanti piangono le communi disaventure è uno sfogamento delle lor passioni. EUGENIO. Ma perché tanto affliggervi? ARTEMISIA. Primieramente temo che non m'amate. EUGENIO. Ahi, fiera stella, e come può cadere in voi cosí brutto pensiero se sapete certo che vi amo da dovero e il nostro amore è reciproco?

ESSANDRO. Ecco ch'io non posso non chiamarmi vinto dal nobilissimo animo vostro. Conosco che veramente m'amate. PANURGO. O Alessio carissimo, come comparite a tempo! parmi questa una ventura dal Cielo. Voi solo mancavate al buon disegno. ALESSIO. Eccomi al tuo comando, Panurgo caro. PANURGO. Tu, Alessio, sei l'istesso e commune aiuto degli amici; però aiutaci: il bisogno ne fa importuni.

AMASIO. Non mi mancate, di grazia, se m'amate. CINTIA. Mancherei piú tosto a me stesso. AMASIO. Io adesso vo a spogliarmi per mandarvele; adio. CINTIA. Adio, signora mia. ERASTO. Cintio mio caro, amico mio dolce, convenevol mezo da conseguir tutte le mie amorose consolazioni, quando vi pagherò giamai tanto obligo? Deh, lasciate che vi baci le mani apportatrici de' remedi alle mie passioni!

LIDIA. Orsú, Cintio mio, poiché voi affermate che cosí voi m'amate come v'amo io, e che i vostri amori non sono vani o lascivi ma da sposi, con licenza de' nostri padri potremo sposarci insieme. AMASIO. Eccovi qui prontissima la mia fede d'esservi sposo e servo mentre vivo; però calate giú, anima mia, accioché la possiamo insieme stringere.

ERASTO. Col medesimo pensiero son uscito di casa ancor io, ché non è ben di me quel giorno che non vi veggio; però vi andava cercando. CINTIA. Cercavate uno che non si parte da voi mai. ERASTO. M'amate al solito, eh? CINTIA. Al solito, perché non si può piú, e salito al colmo non si può piú crescere.

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