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La sola cosa mangiabile era il montone allo spiedo. Nemmeno il cuscussu, il piatto nazionale dei mori, fatto con grano tritato della grossezza della semola, cotto a vapore e condito con latte o brodo, perfido simulacro di risotto , nemmeno questo famoso cuscussu, che piace a molti europei, mi è riuscito d'inghiottirlo senza cangiar colore. E ci fu qualcuno di noi che, per punto, mangiò di tutto! cosa consolante la quale dimostra che in Italia ci sono ancora dei grandi caratteri. A ogni boccone, il nostro ospite c'interrogava umilmente collo sguardo, e noi, stralunando gli occhi, rispondevamo in coro: Eccellente! Squisito! e buttavamo giù subito un bicchier di vino per ravvivarci gli spiriti. A un certo punto, scoppiò nel cortiletto una musica bizzarra che ci fece balzar tutti in piedi. Erano tre sonatori, venuti, come vuole il costume moresco, a rallegrare il banchetto: tre arabi dai grandi occhi e dal naso forcuto, vestiti di bianco e di rosso, uno colla tiorba, l'altro col mandolino, il terzo col tamburello; tutti e tre seduti fuori della porta della nostra stanza, vicino a una nicchietta dove avevano deposto le pantofole. Tornammo a sedere e i piatti ricominciarono a sfilare (ventitrè, comprese le frutta, se ben mi ricordo) e i nostri volti a contorcersi e i turaccioli a saltare in aria. A poco a poco le libazioni, l'odore dei fiori, il fumo dell'aloé che ardeva nei profumieri cesellati di Fez, e quella bizzarra musica araba, che a furia di ripetere il suo lamento misterioso, s'impadronisce dell'anima con una simpatia irresistibile; ci diedero per qualche momento una specie di ebbrezza taciturna e fantastica, durante la quale ognuno di noi credette di sentirsi il turbante sul capo e la testa d'una sultana sul cuore. Finito il pranzo, tutti si alzarono e si sparpagliarono per la sala, per il cortile, per il vestibolo, a guardare e a fiutare da ogni parte con una curiosit

Il nero vestito signorilmente, col turbante bianco e col caffettano celeste, gli depose ai piedi un vaso di latte, una cesta di aranci e un piatto di cuscussù; l'arabo, d'aspetto povero, vestito della sola cappa, gli mise dinanzi un montone. Compiuto quest'atto, si scambiarono uno sguardo fulmineo. Erano due nemici mortali.

Quel giorno, dopo aver assistito alla presentazione della muna, fra cui v'era un piatto spropositato di cuscussù, portato a stento da cinque arabi, ci rifugiammo, come sempre, sotto la tenda, a godervi i soliti quaranta gradi centigradi che duravano fino alle quattro dopo mezzogiorno; nel qual tempo l'accampamento rimaneva immerso in un profondo silenzio. Alle quattro, la vita si ridestava.

Poco dopo la presentazione della mona obbligatoria, arrivarono all'accampamento più di cinquanta servi arabi e neri, disposti in fila, che portavano in grandi scatole rotonde, chiuse da altissimi coperchi conici di paglia, ova, polli cotti, torte, dolci, arrosti, cuscussu, insalate, confetti; tanta roba da saziare una tribù affamata.

Gli altri ufficiali, in quel frattempo, facevano colezione in una stanza a terreno aperta sul cortile, tutti seduti in cerchio sul pavimento, coi piatti nel mezzo. Capii benissimo, vedendoli mangiare, come i mori possano far di meno del coltello e della forchetta. Non si può dire il garbo, la destrezza, la precisione con cui facevano in pezzi i polli, il montone allo spiedo, la caccia, i pesci, ogni cosa. Con pochi movimenti rapidissimi delle mani, senza scomporsi menomamente, ognuno spiccava giusta e netta la sua porzione. Pareva che avessero delle unghie taglienti come rasoi. Immergevano le dita nelle salse, facevano delle palle di cuscussù, mangiavano l'insalata a manate, e non un briciolo, non una goccia cadeva fuor del piatto; e vedemmo infatti quando s'alzarono che avevano i caffettani bianchi immaculati come prima. Di tratto in tratto un servo portava in giro una catinella e un asciugamano; si davano una lavatina e poi tutti insieme rituffavano lo zampino in un altro piatto. Nessuno parlava, nessuno alzava gli occhi, nessuno mostrava d'accorgersi che noi fossimo l