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Donato spalanca tutti e due gli occhi e non gli basta; quello che il signor Asdrubale tiene chiuso non sarebbe di troppo per vederci chiaro, E l'altro prosegue a dire: «Ho giocato anch'io, e gioco ancora qualche volta; se crede, può far prima la pace del suo debito; io non desidero di meglio. Le carte sono traditrici, ella potrebbe perdere con altri, e mi dorrebbe molto, molto.

«Povero signore! dice poco dopo il signor Asdrubale, non ne imbrocca uno, non ne imbrocca; io non ce l'ho proprio il fante di picche, lo cerco... ma non ce l'ho proprio; povero signore! E dette queste parole, nota nel taccuino il nuovo guadagno, raduna le proprie carte, nasconde il tutto nella giubba e si abbottona da cima a fondo per l'ultima volta.

Ora che Donato sa di aver a fare col signor Asdrubale, per occupare in qualche modo il silenzioso trotterello con cui gli cammina al fianco, piglia ad esaminarlo.

Non ci si fida quasi; quel nome e quel cognome gli paiono capaci di qualche tiro, vorrebbe lacerare la cambiale. Il signor Asdrubale lo trattiene; e giunto a casa tira fuori un foglio di carta bollata, mette la penna nelle mani del giovine e detta senza preamboli una breve ma succosa dichiarazione come qualmente Donato è debitore di lire cinquemila verso Costanza.

Incoraggiato da un cenno gentile e da un sorriso amoroso, Donato addenta il sigaro d'avana, raccoglie il fante di picche, lo caccia nel mazzo, e mescola copiando assai male la disinvoltura che gli è tanto piaciuta nell'avversario. Ed è squisita misericordia del cielo se il signor Asdrubale, tutto intento a tirare di qua e di l

Il giovine capisce l'allusione, e vorrebbe offendersene; e sebbene un sentimento di giustizia gli dica che il signor Asdrubale ha ragione, si prova a fare il viso arcigno; ma l'ometto non gli bada, gli sorride, lo trae con lieve violenza ad un tavolino, lo costringe a sedersi e gli siede dirimpetto, e finalmente domanda un mazzo di carte; tutto ciò con una bonariet

Il marchese Asdrubale è morto grande di Spagna. Si è fatto sera. La vecchia e i tre figli sono tutti sepolti nello buca gentilizia della cappella, in quattro cofani di velluto nero, tutti e quattro distesi su quattro seggioloni disusati, sotto una pietra incisa coi cranii e le clessidre e gli svolazzi che annodano le tibie. È la sera di Natale.

Ride e trema insieme, e si sente come oppresso dalla vergogna e dal rimorso, e ricerca di soppiatto un'accusa sul volto del signor Asdrubale, il quale ora è entrato nel guscio del giocatore vero e mesce le carte con sicurezza e depone il mazzo sul tavolino. «Che gioco preferisce il signor Donato?

A Donato rimane appena il tempo di ghermire il cappello, di guardarsi alla sfuggita nello specchio e di porsi alle calcagna del bizzarro visitatore, il quale scende le scale a due gradini alla volta. «Signore, signore! Il signore si ferma per fortuna, e in due salti Donato gli è presso. «Non le ho detto il mio nome; mi chiami signor Asdrubale; a Milano non mi si conosce altrimenti.

Allora si leva in piedi, guarda innanzi a e rimane come istupidito. È lui, ancora e sempre lui il fante di picche! Il signor Asdrubale, col pugno sull'anca, colla faccetta petulante, se non ha un aspetto odioso, come pare a Donato, ha certo una gran voglia di ridere. A momenti spalanca la bocca sorridente e se la lascia scappare la sonora risata di soddisfazione che gli spira da tutti i pori.