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Aggiornato: 20 giugno 2025
Nicolino Ariberti. era rimasto sovra pensieri. Quella timida occhiata di Filippo Bertone gli stava sul cuore. Perchè non l'ho io salutato? andava dicendo tra sè. Imparerò anch'io a giudicar gli uomini solamente dall'abito? Torniamo a noi; gridava intanto il Ferrero. -Si pensa sul serio a metterla in luce, la Dora? Ma si, certamente.
Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda voltarsi.
Ridottosi nella sua camera, e piantati i gomiti sullo scrittoio, masticava, secondo il bisogno, un passo di Tito Livio, o un teorema di geometria; ma queste cose gli conciliavano maledettamente il sonno, e per cacciarlo via, Nicolino mutava registro, scombiccherava un acrostico, o tirava qui un tocco in penna, tutto facce e profili di parrochi.
Bada; gli aveva detto, in principio dell'anno, suo padre; se non ti passano con tutti i voti all'esame torni a casa e non passi più il Tanaro fino a tanto ch'io viva. Ti metto a bottega da un calzolaio, o da un legnaiolo, e sarai bello davvero! Ora, il signor Nicolino sapeva che suo padre quel che prometteva lo dava, e a misura di carbone.
Quelle ragioni erano sembrate il nec plus ultra a Nicolino Ariberti, che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorr
Il signor Nicolino si ricordò allora di averci in tasca un tozzo di pane; subito lo trasse fuori, ne sbriciolò la mollica sugli orli del nido e se n'andò via mogio mogio, mentre la passera vittoriosa imbeccava la ricuperata sua prole. Brava! diss'egli, allontanandosi col suo scudiero dal teatro della sua confusione. Ha coraggio! E da quel giorno rispettò sempre tutte le bestie.
Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto solo.
Ma il signor Amedeo non se ne contentava; il primo, il vero maestro di suo figlio, era lui. Tornato indietro coll'ingegno fino ai primi elementi dello studio, d'anno in anno si alzava con lui, cavando tesori di sapere dai fondi della memoria, che ne erano forniti, come d'anfore e vasi i fondi della casa di Arrio Diomede a Pompei. Nicolino sentiva di essere amato grandemente dal babbo.
Nicolino Ariberti salì rapidamente le otto scale che mettevano a quel nido di rondini, senza aver chiesto nemmeno al portinaio se l'amico suo fosse in casa. Dimenticanza perdonabile invero, perchè quella casa non aveva, per custode all'ingresso, nemmanco il più umile tra i censori d'Apelle, che era, come sapranno i lettori, un maneggiatore di lesina.
La mamma, se a caso lo vedeva girandolar colle mani alla cintola, era sempre lì coll'antifona: Suvvia, Nicolino; non hai fatto ancor nulla quest'oggi. Vedi, tuo padre va in collera, e brontola sempre con me. Per amor mio, va a lavorare, che tu non perda il novembre quel che sapevi in agosto. Nicolino andava storcendo un pochino le labbra, ma andava.
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