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, o signora, esclamò Federigo, con accento drammatico, turbiamo l'onesta coscienza di quest'uomo.... Scandalizziamo addirittura. Noi ci amiamo, noi siamo due esseri colpevoli e felici, in procinto di fare una tragica colazione, mangiando la costoletta del disonore e bevendo il vino del tradimento... Signora, noi rotoliamo in un abisso... Senza fondo.... Noi potremo essere sorpresi.

Vorrei io esser lui, ché conoscendo quella bellezza che in voi singular si scuopre, i divini costumi e l'onestá, ricco tesoro di grazie, mi terrei felicissimo; quando una sol volta fussi mirato da voi, saresti osservata e riverita da me, qual si conviene al vostro merito. CLERIA. Mi vergogno non essere come tu dici, solamente per piacergli.

GIACOMINO. Io dal primo giorno ch'io vidi la bellezza, l'onestá, i costumi e un tesoro di tanti meriti e di tutte le grandezze della natura in vostra figlia, feci un fermo proposito, averla per moglie; mai mi cadde pensiero contaminar la candidezza della sua onestá d'una minima macchia; e or disprezzo e aborrisco la vita avendo a viver senza lei, e son tutto disposto e confirmato in questo pensiero, che o mi la concediate per isposa o che m'ammazziate qui or ora.

TRINCA. Sète di quei padri che prima muoiono, che maritano i figli, per non contentarsi mai. PARDO. Or ho deliberato dar Sulpizia per moglie ad Attilio, e vo' che mi ubedisca, cosí per l'obligo che mi tiene di figlio, come per l'onestá della dimanda, e come per l'amor che mi porta: ché l'amor e l'ubedienza son sorelle carnali. TRINCA. V'è tenuto per obligo, e farallo per cortesia e per amore.

SULPIZIA. Dimmi, traditore, ch'offesa ti feci io mai, se non l'averti amato piú del dovere? quanto tempo son stata nemica di me stessa per amar te? ché ti diedi l'imperio d'ogni mia volontá e comprai il tuo amore a costo dell'onor mio. All'ultimo, per guiderdone, spenta la vergogna, la giustizia e l'onestá, tradesti l'amore, la sposa e la fede; e mi lasci beffeggiata, schernita e rifiutata.

ARREOTIMO. O misero Arreotimo, e qual prima piangerai di tante disgrazie? che di maschio ch'io pensava Cintio, or sia femina; o di femina che ora la trovo, sia disonesta; o che nel fin perduta l'onestá, abbia insieme a perder la vita? o debbo forse pianger me stesso che sia vissuto insino a tanto ch'abbia dovuto veder tante disgrazie?

Bene spesso, a un tratto s'interrompeva; e una frase ardita, un grido di guerra del tempo andato finivano in una sorda imprecazione, in una bestemmia da soldataccio, che facevano scappar via l'onesta vicina.

Sono inetti e tradiscono. Tradiscono, non dirò del tradimento volgare che inganna deliberatamente perch'io non so le intenzioni e quindi non le accuso ma del tradimento perenne, ineluttabile, egualmente funesto, di chi si assume un ufficio senza possedere uno solo degli elementi necessarî a compirlo. Vorrebbero Roma, vorrebbero Venezia a chi non sorriderebbe l'acquisto della doppia gemma? ma le vorrebbero dall'Austria, dalla Francia, dalla Diplomazia, da concessioni codarde e fatali al futuro, da mercati colpevoli verso altri Popoli, da interventi disonorevoli, da ogni Potenza, da ogni raggiro, fuorchè dall'Italia e dalla franca, leale, diretta, morale Politica, che dice: son mie; Dio le dava all'Italia: il Popolo Italiano compie i voleri di Dio. Hanno sognato d'avere Venezia allettando l'Austria a impossessarsi delle terre Moldo-Valacche, coi capi delle quali ricambiavano intanto proteste d'amicizia fraterna: sognano d'averla ajutando un giorno l'Austria nella conquista dell'egemonia Germanica, la Francia in quella delle provincie Renane; e, quanto a Roma, l'aspettano Cavour lo dichiarava, applaudito alla Camera dalla conversione del Papa e di tutto l'orbe cattolico. Erano pronti, per avere tre anni addietro Venezia, ad abbandonare ai disegni napoleonici il Centro; abbandonerebbero oggi, per aver Roma, il Mezzogiorno d'Italia. Fiacchi sino al ridicolo, mandarono elucubrazioni rettoriche al Papa, che l'alleato non consegnò. Condannati dall'assenza d'ogni concetto a rinascenti contraddizioni, proclamarono la vuota formula libera Chiesa in libero Stato con uno Statuto il cui primo articolo dichiara il Cattolicesimo religione officiale della Nazione: bandirono solennemente il Diritto del Paese a Roma, poi annunziarono che s'asterrebbero da ogni pratica per tradurre il diritto in fatto, e si tacquero. Da due anni il Papa ha praticamente dichiarato guerra al Regno d'Italia; da due anni escono da Roma, fatta convegno aperto di cospiratori protetti dalle bajonette francesi, bande armate di masnadieri a infestare le provincie meridionali; ed essi si limitano a una impotente difesa. Leggono nel preventivo Francese del 1864 mantenuta la cifra che rappresenta le spese dell'occupazione, e non trovano in coraggio che basti, non foss'altro, a protestare pubblicamente davanti all'Europa e chiederle l'onesta applicazione del non-intervento; e forti del favore dell'Inghilterra e dei Popoli quanti sono non hanno core, dacchè guerra non osano, di dire almeno a tutti, Papa, Francia, Governi e Popoli: «Lo straniero occupa ad arbitrio la nostra Metropoli e una zona di frontiera della nostra terra; l'Europa è inerte; il Diritto è muto per noi; l'azione legale ci è contesa: noi lascieremo aperta la via ai rimedî anormali. Collocati fra l'usurpazione altrui e il diritto dei nostri, lascieremo ai nostri libert

Che mi curo io di robba? son altro che miserabili beni di fortuna? L'onestá e gli onorati costumi son i fregi dell'anima; ricchezze ne ho tante che bastano per me e per lei. Or non potrebbe essere che, trattenendomi, don Flaminio mi prevenisse e se la togliesse per moglie, ed io poi per disperato m'avesse ad uccidere con le mie mani?

DON FLAMINIO. Or veramente le cose non sono com'elle sono, ma come l'estima chi le possiede. DON IGNAZIO. Che volete dir per questo? DON FLAMINIO. Che non è tanta l'onestá e il suo merito quanto voi dite. DON IGNAZIO. Dite cose da non credere. DON FLAMINIO. Ma piene di veritá. Ma dove nasce in voi tanta meraviglia? DON IGNAZIO. Anzi io non posso tanto meravigliarmi che basti.