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Aggiornato: 15 maggio 2025
PIRINO. Non cosí splende il sole, quando ha alquanto ricoperti i suoi raggi di nuvoli, come le due chiare stelle de' vostri begli occhi lampeggiano sotto la nera tinta, ché a pena posso soffrire i suoi ardentissimi lampi; né cosí i carboni rilucono sotto il cenere, come porporeggiano i vostri labrucci di rubini: anzi la tinta istessa par troppo festosa e superba nella vostra faccia, né scorgono gli occhi miei cosa piú bella di lei.
LECCARDO. Oimè, quella faccia piú bianca d'una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, quei labrucci piú cremesin d'un presciutto, quella..., ahi! che mi scoppia il core,... DON FLAMINIO. Che cosa? sta male? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. Ecci pericolo della vita? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. È morta? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. Che cosa piú peggio della morte?
Niun fiore può paragonarsi con te, che porti i giacinti negli occhi e i gigli nelle carni, e parli rose e spiri gelsomini e fior di naranci. ESSANDRO. Dove avete lasciati i garofoli? GERASTO. Perché son troppo palesi in questi tuoi labrucci. E se Dio volesse far un re sovra i fiori, non eleggeria altro che te, tante sono le tue bellezze. ESSANDRO. Vo' partirmi. GERASTO. Férmati un altro poco.
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