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⁵⁹ Kock, Kaiser Julian.

Ed allora, quasi che quello sconosciuto animale fosse un uomo, quasi che egli potesse intendere, tutto, Julian Sorel, nella via deserta e fangosa, sotto i grandi alberi neri e nudi, innanzi a vasto e giallo fiume, gli gridò, desolatamente: Io debbo morire, io debbo morire, ho duecentosettantamila lire di debiti e non posso pagare, debbo morire, lasciami morire....

A un tratto, sentì un urto contro una gamba: si voltò. Gli veniva dietro un cane e lo guardava. Era un bruttissimo, sporchissimo e magro cane, che pareva avesse addosso dieci giorni di vagabondaggio e di fame, pel fango della campagna; un cane che faceva schifo. Donde era sbucato? Julian Sorel non avrebbe potuto dirlo.

Passa via, e gli diede un calcio. Il povero cane prese il calcio in una spalla e guaì dolorosamente: ma sempre guardando Julian Sorel, lo seguì ancora. Quello si fermò, turbato assai. Perchè lo seguiva, quel cane, così ostinatamente, anche dopo essere stato battuto? Perchè lo guardava con quegli occhi che parevano umani, tanto esprimevano la piet

Il roseo della sua candidissima pelle era più veramente roseo di qualunque rosa. Dunque? domandò, di nuovo, a Julian Sorel. Costui non osò ancora rispondere, e la guardò con gli occhi preganti. Gwendaline crollò un poco la testa biondissima e si mise a giuocare coi suoi fulgidi anelli, che le coprivano le dita sino alla prima falange, sino all'indice, come a un idolo di Egitto.

Ma il cane era dietro a lui, lambendogli le gambe, ma il cane avrebbe latrato vedendolo cadere nel fiume, ma il cane si sarebbe forse buttato nel fiume per salvarlo, ma il cane non voleva che egli morisse, ecco l'idea terribile sorta nello sconvolto cervello di Julian Sorel.