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Aggiornato: 23 maggio 2025
FILASTORGO. Se le restituirá. TEODOSIO. Come se le potrá restituire? FILASTORGO. Prendendola per moglie: cosí l'ará tolto a se stesso. TEODOSIO. Ará fatto danno alla casa. FILASTORGO. Será rifatto ogni danno, ché per la Dio mercé abbiamo come possiamo farlo. TEODOSIO. O uomo temerario e insolente!
TEODOSIO. Chi sei tu per rifar cosí gran danno? FILASTORGO. Padre di colui che avete prigione. TEODOSIO. Sète certo padre d'un giovane di buona speranza! FILASTORGO. Voi sapete che i peccati per amore non meritano tanta riprensione, e massime quelli che commettono i giovani ne' primi amori. Però correggasi l'errore il meglio che si può.
FILASTORGO. Questi mascalzoni son forse pari miei? PROTODIDASCALO. Non v'ho detto che iam dudum erano venuti di Turchia e Lampridio gli avea espulsi di casa e non han potuto cambiarsi le vesti? TEODOSIO. Giá l'han preso prigione e non gli è giovato il far credere al capitano ch'io fossi matto. EUGENIO. Ecco, patirá la pena del suo fallire. FILASTORGO. Ecco colui ch'è per rifarvi ogni danno.
PROTODIDASCALO. Convenir questo Teodosio, alloquere a questa Sennia madre della giovane e trattar coniugio con sua figlia, non potendo il fatto altrimente rimediarsi; ché forse vi rimetteranno la querela. FILASTORGO. Che genti son queste? son forse pari miei? PROTODIDASCALO. Son de' primati e degli optimati di questa cittá: anzi vi fia difficillimo ottenerlo. Ma eccoli: questi sono.
FILASTORGO. Son giá fastidito d'andar dimandando, e dubito se non l'incontro a caso, di non averlo a ritrovar giamai; e in cosí populosa cittá è appunto l'andar cercando lui come un ago nella paglia. Andiamcene su, madre. SENNIA. Andiamo, ma questo forestiero che or mi par gionto in Napoli, figlio, non ti muove gli occhi da dosso. FILASTORGO. O Lampridio, figliuolo carissimo, Iddio ti salvi!
Un paulolo di errore solamente: mutatosi il nome di un figlio esule di una matrona, è entrato in sua casa per fruir la sua figlia pulcrissima di cui l'animo subbolliva d'amore. FILASTORGO. Ahi mentitor perfido! ahi temerario esecutor di tanta nefanditade che fa ingiuria al padre, alla patria e a se stesso!
Tu pur sei Lampridio mio figliuolo che ti ho mandato di Roma per studiare a Salerno. SENNIA. Costui si dimanda Eugenio ed è mio figlio ed è stato venti anni in Turchia e non attese a studio mai. FILASTORGO. Che Eugenio, che Turchia, che parole son queste che ascolto? LAMPRIDIO. Vo' partirmi, ché la tua perfidia cominciata non finirá sí tosto. Andiamo su, madre. SENNIA. Andiamo.
LAMPRIDIO. Non arei potuto vederne piú chiaro segno, e per rendervi le debite grazie di tanta affezione mi mancano le parole: però vi priego che col vostro savio discorso consideriate quel tanto obligo che vi debbo e per natura e per debito, e facci Iddio che io viva tanto che possa dimostrarlovi. FILASTORGO. Fa' che ami la tua Olimpia, poiché ne hai tanto patito e fatto patire ad altri.
Nam pro «quia, quare, quamobrem», perché le ruine quanto meno si sperano piú tosto vengono, e con questo importuno nunzio l'intercida le sue dolcedini. Ma eccolo, mi si fa obvio: fuggirò per questa strada. FILASTORGO vecchio solo. FILASTORGO. Oh che magnifica cittá è questa Napoli! non è cosa da lasciarsi di vedere.
TEODOSIO. Non si fa altro. Voi mi scalzate le scarpe. FILASTORGO. Perdonatemi, ché «ad un che desia, ogni prestezza è tarda». MASTICA. Mi ha giovato lo star qui intorno, perché ho inteso che costoro sono d'accordo e la cosa è riuscita a miglior fine che non pensava. Dunque io serò il primo che porterò la nuova a Sennia e per mancia ritornerò all'ufficio della cucina. O Sennia padrona, o padrona!
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