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Aggiornato: 2 giugno 2025
E io a lui: <<Da me stesso non vegno: colui ch'attende la`, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno>>. Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui gia` letto il nome; pero` fu la risposta cosi` piena. Di subito drizzato grido`: <<Come? dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora? non fiere li occhi suoi lo dolce lume?>>.
E quel frustato celar si credette bassando ’l viso; ma poco li valse, ch’io dissi: «O tu che l’occhio a terra gette, se le fazion che porti non son false, Venedico se’ tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?». Ed elli a me: «Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.
Elli si mosse; e poi, così andando, mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?». E io li sodisfeci al suo dimando. «La mente tua conservi quel ch’udito hai contra te», mi comandò quel saggio; «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell’ occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio».
<<Io son d'esser contento piu` digiuno>>, diss'io, <<che se mi fosse pria taciuto, e piu` di dubbio ne la mente aduno. Com'esser puote ch'un ben, distributo in piu` posseditor, faccia piu` ricchi di se', che se da pochi e` posseduto?>>. Ed elli a me: <<Pero` che tu rificchi la mente pur a le cose terrene, di vera luce tenebre dispicchi.
Ed elli: <<Io ti diro`, non per conforto ch'io attenda di la`, ma perche' tanta grazia in te luce prima che sie morto. Io fui radice de la mala pianta che la terra cristiana tutta aduggia, si` che buon frutto rado se ne schianta. Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia potesser, tosto ne saria vendetta; e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
E io a lui: «L’angoscia che tu hai forse ti tira fuor de la mia mente, sì che non par ch’i’ ti vedessi mai. Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente loco se’ messo, e hai sì fatta pena, che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente». Ed elli a me: «La tua citt
Se tu se’ sì accorto come suoli, non vedi tu ch’e’ digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?». Ed elli a me: «Non vo’ che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti». Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno; ed elli avea del cul fatto trombetta. Inferno · Canto XXII
Ed elli a me: <<Saper d'alcuno e` buono; de li altri fia laudabile tacerci, che' 'l tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama,
Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo, disse <<Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?>>. Ed elli a noi: <<O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c'ha le mie fronde si` da me disgiunte, raccoglietele al pie` del tristo cesto. I' fui de la citta` che nel Batista muto` il primo padrone; ond'ei per questo
Poco più oltre, sette alberi d’oro falsava nel parere il lungo tratto del mezzo ch’era ancor tra noi e loro; ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto, che l’obietto comun, che ’l senso inganna, non perdea per distanza alcun suo atto, la virtù ch’a ragion discorso ammanna, sì com’ elli eran candelabri apprese, e ne le voci del cantare ‘Osanna’.
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