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Basta, bisogna subire il destino tal quale è... strano, stranissimo... Infatti vi è del maraviglioso nel tuo... Ma dimmi, quando sapesti che la famiglia di tuo padre dimorava in Sicilia, che qui dovevi recarti, che pensasti?

Ma il frate senza scomporsi: «Questo tuo sdegno nobilissimo mi persuade ch'egli sia giovane dabbene; e se le mie parole t'avessero offesa, me ne dorrebbe assai. Ma noi si fa sempre e si dice in fin di bene, e se tu vuoi che io ne parli a tuo padre, dimmi il nome...

SANTILLA, FESSENIO servo, LIDIO, FANNIO servo. SANTILLA. Eh! Fessenio, dov'è mio fratello? FESSENIO. Vedilo , ancor con li panni che tu li desti. Andiamo a lui. Lidio, conosci tu costei? LIDIO. Non certo. Dimmi chi ella è. FESSENIO. Quella che, in tuo loco, con Fulvia rimase; quella che tanto hai cercato. LIDIO. Chi? FESSENIO. Santilla tua. LIDIO. Mia sorella?

Ed al proverbio: «dimmi con chi tratti e ti dirò chi seiio sostituisco; «dimmi dove soffi, o dove raschi, e ti leggerò la vita

Son qui ai tuoi piedi, Ezio: non lasciarmi così... Il giovine si sentì stretta la mano da due piccole mani ardenti e intralciata la via da una persona che s'era inginocchiata a' suoi piedi. Che cosa fai? una scena, qui, sulla pubblica strada? Tu devi pronunciare la mia sentenza, Dimmi che cosa devo fare per espiare il mio delitto. Lascia che io venga con te.

PANFAGO. Ché! sei tu mio giudice? FORCA. Dimmi: come sei destro? PANFAGO. Destrissimo. FORCA. Non dico ad arrobbare, io. PANFAGO. manco dico questo, io, ma al negoziare. FORCA. Di che razza sei? PANFAGO. Di giudei. FORCA. I tuoi quarti? PANFAGO. L'un di birro, l'altro di boia, il terzo di cerretano. FORCA. Come sei reale? PANFAGO. Come zingano. FORCA. Bene. Come sopportaresti le corna?

<<Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore>>, comincia' io per voler esser certo di quella fede che vince ogne errore: <<uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato?>>. E quei che 'ntese il mio parlar coverto, rispuose: <<Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria coronato.

O modesto filosofo, Che giunto a quarant'anni, Fra l'incessante turbine Di miserie e d'affanni, Vivi solingo e povero, E nel tuo cor securo Sotto l'usbergo del sentirti puro, Di' qual è dunque il tramite Che al sepolcro conduce E cui conforta il raggio D'inestinguibil luce? Dimmi, come si vincono Queste umane tempeste, Che fan le genti o torve, o tristi, o meste?

PANFAGO. Questo è quel pazzo di poco anzi, nol conoscete? DOTTORE. Certo che mi par quello: ride, salta e cava fuor la lingua. PANFAGO. Scampa, dottore, ché non ti còglia un'altra volta. FILIGENIO. Vien qui. Dimmi: chi sei tu? parlavi poco anzi come un filosofo; come hai or cosí perduta la lingua? Se non rispondi, ti rompo la testa. Oimè, oimè; aiuto, aiuto, ché costui non m'ammazzi!

MASTICA. È dunque questa la casa tua? TEODOSIO. Dimmi prima se questa è la casa di Sennia. MASTICA. Questa è la casa di Sennia: è per questo la tua? TEODOSIO. Io son Teodosio suo marito che sono stato venti anni in man di turchi, e or scampato la Dio mercé dalle lor mani me ne ritorno a casa mia. TEODOSIO. O di casa! Tic, toc.