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Nel mezzo della vita che la mia sventura volle che io tenessi, abbandonata, senza lumi di religione e di fede, finchè non piacque a Dio di ritrarmivi, l'avvenimento funesto non avrebbe a me stessa fatto meraviglia. Ma ahimè, ahimè!... Giunta a tal punto Angiolina non ebbe più forza di proseguire, chè un dirotto pianto ed opprimente singulto alquanto le impediva la parola: come fu per le cure dell'amiche un poco rimessa, Ahimè! proseguì, era segnato nel libro fatale del destino ch'io dovessi bere fino all'ultima goccia il calice delle amaritudini. Nel tempo della mia tribolazione, io desiderava almeno conoscere chi potesse essere il padre di quell'essere che avrebbe dovuto pur troppo con orrore risguardare la madre sua; io era determinata di rinunziare per sempre al conforto di sentirmi chiamar madre, perchè il figlio non dovesse arrossirne, perchè il mondo non stampasse su quella fronte innocente il suggello della esecrazione. Oh quanto era infelice, amiche mie, quanto ora lo sono ancor più! Ma come scoprire il padre del frutto delle mie viscere?... Cresceva intanto nel mio seno quell'essere infelice, e le mie compagne di turpitudini e l'infamissima maestra di esse volgevano in dileggi e le mie lacrime e la mia affezione. Finalmente il giorno da me desiderato e temuto giunse, ed io misi alla luce un vezzoso fanciullo. Chi può narrare ciò che provai in quell'istante? Non osava guardarlo, poichè il primo di lui sorriso esser doveva l'ultimo per la madre sventurata. Lo strinsi al mio seno. Dopo pochi momenti le infami braccia della padrona di quell'orribile albergo me lo strappavano fra le risa e gl'insulti delle mie compagne di ludibrio. Buon Dio! che può mai impedire ad una madre, sia pur le mille volte colpevole, di ritrovarsi un su questa terra col parto delle viscere sue? Formai un progetto e tosto l'eseguii: ah! io ben sapeva come quella infelice creatura andava ad essere confusa fra le mille e mille sventurate sue pari in un di quei luoghi ove la piet

ATTILIO. Angoscie, amaritudini, la morte istessa. EROTICO. Di che viverete? ATTILIO. Della propria morte. EROTICO. Deh, caro amico, non lasciarti cosí trasportar dal dolore! E quel legame d'amicizia, che insieme ne stringe, mi astringe che non ti lasci partire. ATTILIO. A dio, caro amico.

EUGENIO. Veggio scoprire il mio sole: e come il sole sorgendo la mattina, vien il mondo a rischiararsi e farsi bello, che era dinanzi tenebroso e pien di orrore; cosí apparendo voi, mio chiarissimo sole, le tenebre e amaritudini del mio cuore tutte si fanno illustri, e mi riempie il cuore di dolcezza. ARTEMISIA. Siate il ben trovato, spirito dell'anima mia!

Oh come ottimamente dissero i savi: che Amor alberga sovra un gran monte dove solo per miserabili fatiche e discoscese balze si perviene, volendo inferir che negli amori gran pene e amaritudini si soffriscono, ma quelle pene son condimento delle loro dolcezze! Ma ecco Leccardo.