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Quando il marito stava alla miniera, bisognava vedere che studio di tenerezze faceva la madre! Si prendeva fra le mani la grossa testa idiota del figliuolo, e lo fissava con occhi ardenti che pareva dovessero accendergli il fuoco nell’anima e divorarlo. Che tempeste di baci su quelle guancie floscie e sulla bocca bavosa. Il più era quando il bambino dormiva. Allora, l’errore diventato possibile, essa lo allargava per tutti i versi, perdendosi in una assoluta dimenticanza delle cose passate e delle future, creando a se stessa una certezza di felicit

Era principiato l'inverno e l'Agnese tribolava anche più. Doveva mettersi in moto due ore almeno innanzi giorno, nella casa buia, fredda, silenziosa, mentre i padroni dormivano della grossa. E cominciare a lustrar le scarpe, a smacchiare gli abiti, ad accendere il fuoco per l'acqua calda: poi preparare il caffè del professore, il latte di gallina per la signora, e la pappa di Rosalia. Appena il Conte era alzato, correre ad accendergli la stufa nello studiolo, e soffiare, soffiare, soffiare, da rimetterci un polmone!... E quando si alzava la Contessa, correre anche da lei a pettinarla, lisciarla, abbigliarla; in ultimo, vestire e lavare la Rosalia, faccenda che finiva sempre in tragedia. Dopo c'erano da far le camere: c'era da spazzare, attinger l'acqua e portar la legna dalla cantina al quartierino, su al terzo piano di un casone grande, a Sant'Anastasia. Inoltre bisognava stirare, cucire, preparare il pranzo, lavare i piatti, e infine la sera, quando Agnese cadeva sfinita per la stanchezza, doveva ancora andare in giro per Verona, e su e giù in Piazza Br