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Appena ebbe spalancato la porta, vide l'americano seduto, anzi sprofondato in una gran poltrona di pelle grigia, mezzo ricoperto da que' grandi giornali, che si pubblicano a New-York, a Londra: uno ne leggeva, il Times: gli altri avea gettato a destra, a sinistra, su le ginocchia.

Espansiva, festosa, gaissima con lui, nella conversazione ordinaria, egli la trovava di ghiaccio, impenetrabile, allorchè volea entrare in più intimo argomento. L'americano meravigliava Napoli con la bellezza de' suoi cavalli, de' suoi equipaggi, con la prodigalit

All'orecchio del negro ronzava assiduamente come un orribile bordone quella frase che l'Americano aveva detto ridendo, prima d'incominciare la partita: Se si potesse riattaccare così la testa ad un uomo! e quell'incubo aumentava l'allucinazione sua.

Intanto permettete ch'io vi stringa la mano, riprese l'altro; mi chiamo sir Giorgio Anderssen. Posso offrirvi un'avana? Grazie, no; il fumo mi fa male. Allora l'americano, gettando lo zigaro che teneva fra le labbra, tornò a dimandare: Posso proporvi una partita al bigliardo? Non conosco quel giuoco; vi ringrazio, signore. Posso proporvi una partita agli scacchi?

L'americano avea la febbre di vederla innanzi a , come si ammirano le statue, spoglia d'ogni indumento. Volea scrutare tutte le forme di lei: dirsi se avea desiderato veramente una donna nella sua struttura perfetta, e compiacersi nell'orgoglio di averla disprezzata. Enrica era corsa dietro un magnifico paravento giapponese. I due udivano un fruscio di vesti.

Il negro titubò, poi rispose: , questa l'accetto volentieri, e s'avviarono ad un piccolo tavolo da giuoco che stava all'angolo opposto della sala; presero due sedie, si sedettero l'uno di fronte all'altro. L'Americano gettò i pezzi e le pedine sul panno verde del tavolino per distribuirli ordinatamente sulla scacchiera.

Seguirono ancora cinque o sei mosse d'apertura; i due giuocatori si esploravano l'un l'altro come due eserciti che stanno per attaccarsi, come due boxeurs che si squadrano prima della lotta. L'Americano, abituato alle vittorie, non temeva menomamente il suo antagonista; sapeva inoltre quanto l'intelletto d'un negro, per educato che fosse, poteva fievolmente competere con quello d'un bianco e tanto meno con Giorgio Anderssen, col vincitore dei vincitori. Pure non perdeva di vista il minimo segno del nemico; una certa inquietudine lo costringeva a studiarlo e, senza parere, lo andava spiando più sulla faccia che sulla scacchiera. Egli aveva capito fin dal principio che le mosse del negro erano illogiche, fiacche, confuse; ma aveva anche veduto che il suo sguardo e gli atteggiamenti della sua fronte erano profondi. L'occhio del bianco guardava il volto del negro, l'occhio del negro era immerso nella scacchiera. Non avevano giuocato in tutto che sette od otto mosse e gi

L'Americano, che cercava un pretesto per ritentare il dialogo, si diresse verso l'angolo dove leggeva Tom, e gli disse con delicata cortesia: Quel giornale non ha nulla di gaio per voi, signore; potrei proporvi una distrazione qualunque? Il negro cessò di leggere e s'alzò con dignitoso rispetto davanti al suo interlocutore.

Signore, alla vostra salute! disse l'Americano al negro, alzando il bicchiere verso di lui come insegna il rito della tavola inglese. Grazie, signore; alla vostra! rispose il negro e bevettero tutti e due. Nell'accento del negro v'era una gentilezza tenera e timida e una grande mestizia.

Giunto al varco dove l'Americano l'attendeva, Tom non vacillò un momento, rinunciò alla posizione, sacrificò invece dell'alfiere un cavallo, costrinse l'avversario a distruggere le due regine e la partita mutò aspetto completissimamente.