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Questa sala fu ricostrutta sulle rovine dell'antica, e arabescata, dorata e dipinta da artisti spagnuoli, come l'antica doveva essere; in modo che si può considerare come una sala dei tempi degli Arabi rimasta intatta in tutte le sue parti. Nel mezzo è una fontana, in due pareti opposte due specie di alcove nelle quali si adagiavan le donne, più alto le tribune dove stavano i suonatori.

Tra la molta gente che ronzava intorno alla porta della Legazione v'era un moro elegante, che fin dal primo giorno m'aveva dato nell'occhio; uno dei più bei giovani che io abbia visto nel Marocco; alto e snello, con due occhi neri e melanconici, e un sorriso dolcissimo; una figura da sultano innamorato, che Danas, lo spirito maligno delle Mille e una notte, avrebbe potuto mettere accanto alla principessa Badura, in vece del principe Camaralzaman, sicuro che non si sarebbe lamentata del cambio. Si chiamava Maometto, aveva diciotto anni ed era figliuolo d'un moro agiato di Tangeri, protetto dalla Legazione d'Italia, un grosso ed onesto mussulmano, che da qualche tempo, essendo minacciato di morte da un suo nemico, veniva quasi ogni giorno, colla faccia spaurita, a chieder aiuto al Ministro. Questo Maometto parlava un poco spagnuolo, alla moresca, con tutti i verbi all'infinito, e così aveva potuto stringere amicizia coi miei compagni. Era sposo da pochi giorni. L'aveva fatto sposare suo padre, perchè mettesse giudizio, e gli aveva dato una ragazza di quindici anni, bella come lui. Ma il matrimonio non l'aveva molto cangiato. Egli era rimasto, come dicevamo noi, un moro dell'avvenire, il che consisteva nel bere, di nascosto, qualche bicchiere di vino, fumare qualche sigaro, annoiarsi a Tangeri, bazzicare cogli Europei e almanaccare un viaggio in Spagna. In quei giorni però, quello che ce lo tirava intorno, era il desiderio d'ottenere, per mezzo nostro, il permesso d'unirsi alla carovana, e andare così a veder Fez, la grande metropoli, la sua Roma, il sogno della sua infanzia; e a questo fine ci prodigava inchini, sorrisi e strette di mano, con una espansione e una grazia che avrebbe sedotto tutto l'arem dell'Imperatore. Come quasi tutti gli altri giovani mori della sua condizione, ammazzava il tempo trascinandosi di strada in strada, di crocchio in crocchio, a parlare del nuovo cavallo d'un ministro, della partenza dell'amico per Gibilterra, d'un bastimento arrivato, d'un furto commesso, di pettegolezzi da donne; o rimanendo molte ore immobile e taciturno in un angolo della piazzetta del mercato, colla testa chi sa dove. A questo bellissimo ozioso si lega il ricordo della prima casa moresca in cui misi il piede, e del primo pranzo arabo a cui arrischiai il palato. Un giorno suo padre ci invitò a desinare. Era un desiderio che avevamo da molto tempo. Una sera tardi, guidati da un interprete e accompagnati da quattro servi della Legazione, s'arrivò, per alcune stradette oscure, a una porta arabescata, che s'aperse, come per incanto, al nostro avvicinarsi; e attraversata una stanzina bianca e nuda, ci trovammo nel cuore della casa. La prima cosa che ci colpì fu una gran confusione di gente, una luce strana, una pompa meravigliosa di colori. Ci vennero incontro il padrone di casa, il figliuolo e i parenti coronati di gran turbanti bianchi; dietro di loro, c'erano i servi incappucciati; più in l