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PANFAGO. Nomi che si usano in Schiavonia. MANGONE. Amor, vien qua, non mi vòi tu servir con amore? PIRINO. Ben sarei discortese e villano, se, voi avendomi comprato con grande amore, non mi disponessi a servirvi con grandissimo amore. MANGONE. Servendomi lealmente, ti terrò da figlio, non da schiavo. PIRINO. Anzi, servendo voi, mi parrá di servire non un padrone, ma mio padre.

PANFAGO. Certo, se non avesse visto io imbrattarvi il viso con quella polvere, non crederei mai che foste Pirino: cosí rassembrate un schiavo al naturale; ci è questo di buono ancora, che incontrandovi con Melitea non sarete scoperto, se diventerete pallido o rosso con Mangone, ché il color nero nasconde il color del volto sotto la tinta: andate come in maschera.

PANFAGO.

FORCA. Or poiché cosí rissoluto l'abbiamo, pensiamo a' mezi. PIRINO. Poiché hai mostrato tanto ingegno in questa fizione, di' ancora i mezi de' quali abbiamo a servirci. FORCA. Dove troveremo noi Panfago? PANFAGO. Come stai, Forca mio? FORCA. Per appicarti. PANFAGO. Perché tanto male? FORCA. Perché non m'aiutavi. PANFAGO. Son ito per aiutarti. FORCA. Con quel veloce córso?

PIRINO. Misero me, qual si trova pena maggiore, che paragonandola alla mia non sia una gioia! non è misero stato che non abbia qualche speranza; sola la mia è priva d'ogni futura allegrezza. Buon augurio, Pirino caro, amato e riverito da tutte le belle donne del mondo. PIRINO. Non merito esser burlato da te. PANFAGO. Ben sai che son piú tosto avaro delle tue lodi, che prodigo in adularti.

PANFAGO. Questo è quel pazzo di poco anzi, nol conoscete? DOTTORE. Certo che mi par quello: ride, salta e cava fuor la lingua. PANFAGO. Scampa, dottore, ché non ti còglia un'altra volta. FILIGENIO. Vien qui. Dimmi: chi sei tu? parlavi poco anzi come un filosofo; come hai or cosí perduta la lingua? Se non rispondi, ti rompo la testa. Oimè, oimè; aiuto, aiuto, ché costui non m'ammazzi!

PANFAGO. Mi l'animo che la trappola che han tesa contro te scoccherá contro loro: gli faremo un tratto doppio, che avendola comperata per cinquecento ducati, l'abbi per cento, anzi per nulla. DOTTORE. Tu mi curerai di due malatie, di amor, di gelosia: e dell'una risanandome, dell'altra riempiendomi di speranza. Fa' questo, ch'io non ti mancherò di quanto ti ho promesso.

PIRINO. Te ne prego e straprego. PANFAGO. Or che dici bene, perché lo schiavo deve pregar il padrone. PIRINO. Ecco la casa. Chi dimandate? PANFAGO. Sète voi Mangone? MANGONE. Io son mentre Iddio vòle. PANFAGO. Voi siate il ben trovato per mille volte, padron caro; perdonatemi se, non conoscendovi, primo non vi ho salutato.

che per la soverchia fatica ho una sete ch'arrabio: penso che sia in casa di Alessandro e che apparecchi il banchetto, e tutti mi stieno aspettando. Ecco la casa. O che aura odorata che ne spira, annunciatrice di un eccellente apparecchio! Se non giungo a tempo della battaglia, almeno raccorrò le spoglie de' nemici: tic, toc. ALESSANDRO. Chi è ? PANFAGO. Amici!

DOTTORE. Ogni tua parola m'è un serpe velenoso che mi morde, una tigre che mi straccia. PANFAGO.