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Certe volte il mestiere lo insegnava ai viaggiatori che gli sedevano vicino, e allora erano sperticati elogi delle sue bestie, quattro agnelli, ciac, ciac, che non occorre toccarli mai. Coi signori, tutta gente scribacchina, chiamava penna la frusta e calamaio l’astuccio di cuoio dove riporla in riposo, e via discorrendo.

Armi e munizioni come un po' di pratica mi insegnava, buone flanelle, abiti forti e comuni, scarpe che ricordano l'alpinista, qualche provvigione da bocca, qualche farmaco, e molta fede in Dio che nulla mi faccia mancare, e conservi sempre bene chi col cuore lascio in Italia: famiglia ed amici.

Dura condizione, e funesta al paese! Io era una delle rare eccezioni, e la mia vita diveniva sempre più lieta per le cure affettuose di una moglie che metteva la sua gioia nell'amore della figlia e del marito, e impiegava tutta la giornata a farli felici. Al mio ritorno dalla scuola l'Agata mi aspettava sulla porta colla bimba in braccio, e le insegnava a farmi festa.

Brevi giorni di gioia, che saranno stati dieci, che saranno stati venti in un anno: gli altri, Bruno se li doveva sbarcare da solo, ora coi domestici, ora con un maestro che insegnava tutto ma non interrogava mai, ora con le donnine del babbo. Disponeva della propria giornata a piacere, comparendo un po' dovunque e cercando d'esser vicino a suo padre.

Eravamo tre sorelle somiglianti da scambiar; insegnava l'una all'altra a cucire e a ricamar. La piú piccola di tutte certa sera volle andar per la porta del giardino, con due torcie, a sollazzar. Vestí un abito da paggio, che non potea meglio star; pugnal d'oro alla cintura, borzacchini da allacciar: per la strada, innanzi e indietro, si metteva a passeggiar.

Il maestro Zecchini le insegnava a leggere sui vecchi libri che avevano servito al suo babbo ed allo zio Gervasio; ma quando la bambina si rifuggiava sui ginocchi della nonna, mostrandosi annoiata della monotona cantilena del maestro, implorando la grazia di ritornare ai suoi diletti infantili, la buona donna la liberava subito dal peso della lezione, e la rimandava libera ai boschetti del parco.

Malon parlava, e io mi perdevo negli occhi della nichilista, inondati di quella malinconia che va al cuore come una nota soave, al punto da farmi riprendere da una voce grave una voce che mi insegnava che un socialista non deve contemplare una signorina viva come si farebbe con una figura sulla tela di un pittore illustre. Seppi dopo molte cose di lei.

Leggesi che a Parigi fu uno maestro, che si chiamava ser , il quale insegnava logica e filosofia, ed aveva molti scolari. Intervenne che uno dei suoi scolari, tra gli altri acuto, e sottile nel disputare, ma superbo, e vizioso di sua vita, morì.

Nuove lotte. Pallido, la fronte corrugata, gli occhi stanchi, don Giorgio Castellani errava per la campagna, come un'anima in pena. Non parlava con nessuno, o pronunciava soltanto le parole necessarie. In casa, solo con Cristina, si forzava a parere calmo; le insegnava a leggere e a scrivere per ingannare il tempo e se stesso. Poi si chiudeva nella sua camera col pretesto di un urgente lavoro.

"Non ve la potrei mostrare," rispose la Falsa-Testuggine, "perchè vedete, son tutto d'un pezzo. E il Grifone non l'ha mai imparata." "Non ebbi tempo," rispose il Grifone: "ma studiai le lingue classiche, e bene. Ebbi per maestro un vecchio granchio, sapete." "Non andai mai da lui," disse la Falsa-Testuggine con un sospiro: "mi dissero che insegnava Catino, e Gretto."