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Aggiornato: 5 maggio 2025


Ma il buon vecchio mi pregò di non darmene pensiero, perchè lui, in sartoria, con gli stratagli, avrebbe saputo farsene un altro. Nella prigione di Benevento avevo imparato a consumare il tempo con dei lavori di carta. In pochi mesi ero riuscito a mettere assieme una gabbiuccia che regalai a un secondino. Ma al Castellaccio non c'era proprio nulla da fare.

Ogni mattina, per quattro anni, si toccavano la testa. Graziati da Vittorio Emanuele, vennero al Castellaccio.

Perchè la penna, per quanto sia addestrata alle descrizioni minute e sia padrona di un'officina di vocaboli, non riesce mai a impadronirsi di tutto e a conservare, cogli atteggiamenti individuali, i colori del quadro grandioso. Al Castellaccio ci matricolarono, separando i buoni dai cattivi.

Il passo rapido dei primi veniva sentito dagli ultimi e le punte delle scarpe di una fila andavano sul dorso delle scarpe di un'altra. Da questo bagno al Castellaccio c'erano, su per giù, tre chilometri. Era una strada malagevole che si ascendeva sudando come bestie, sotto un sole di giugno che scottava fin negli occhi. Perdevamo la lingua come i cani.

Dal porto al bagno, ci sono tre chilometri tutti di salita, coi margini dello stradone che smottavano sotto i piedi e facevano pensare ai precipizi. Prima di arrivare all'ergastolo si passa sotto un arco rozzo. L'entrata di questo bagno è tetra. Sente del luogo. Le camere sono assai più piccole di quelle del Castellaccio e in ciascuna di esse sono accomodati otto ergastolani.

Nel bagno di Castellaccio, per esempio diceva il mio informatore che aveva passata la gioventù in parecchi bagni le «tagliatine di faccia» erano avvenimenti quotidiani. Mi pregava però di credere che coloro che si «abbandonavano a questi brutti scherzi» erano tutti «avanzi di galera». E voi credete che queste esplosioni di collera malvagia elevino gli autori di qualche gradino sugli altri?

La prima cosa spiacevole del Castellaccio, fu la distribuzione degli utensili di cucina. Invece della gamella, mi si diede una cosa di legno rotonda, coperta di due dita di muffa, e un pezzaccio di cucchiaio che pareva stato in una cantina umida per degli anni. Me li lavai e me li rilavai senza mai far loro perdere l'odore nauseoso contratto in un ambiente dalle pareti viscide.

Voi mi avete raccomandato di non dimenticare le mie conoscenze di questi ambienti. Il Castellaccio era pieno di briganti. C'erano tutti i superstiti della banda Schiavone e della banda di Alfonso Carbone. Costui era di Mombello, della provincia di Avellino, e un buon diavolo che mi faceva dei favori. Forse avrete sentito parlare di lui.

Mentre ero al Castellaccio c'era un certo Santo Sterpone, nato a Luccoli, della provincia d'Aquila. Era stato condannato a venti anni, come omicida, per due false deposizioni. In galera non poteva darsi pace. Diceva a tutti che era innocente e agli intimi che non sarebbe molto tranquillo se non dopo avere scannati quei due cani. Noi lo lasciavamo sfogare e ridevamo dei suoi sogni di vendetta.

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