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I carabinieri consegnarono le buste dei nostri denari al capoguardia, il quale si mise a registrarle, ci salutarono e noi passammo nello stanzone a pianterreno intitolato «banchi di rigore». Lo stanzone, colle due finestrucole che davano sul viottolo, era buio. Col suo immenso lastrone infisso lungo la parete, cogli anelloni sotto il rialzo dei piedi e al disopra della testa, faceva rabbrividire.

Sapevano della stanzetta al terzo piano dirimpetto all'ospedale, del violino che suonava che la via era libera e la carrozza di fuori ad aspettarlo, e dei passi guadagnati sulla sentinella coi famosi due lati del triangolo. Entrò il capoguardia mentre don Davide e Federici, dall'alto del tavolato, cercavano di capire dalla finestruola da che parte dell'edificio penale ci trovavamo.

Lo abbiamo comandato a Finalborgo e ci hanno rinviati a Milano. Alle due e mezzo della notte del 4 settembre il capoguardia andò nelle celle dei condannati politici a dir loro di alzarsi in fretta che si doveva partire. Alle tre si trovavano nell'ottagono Romussi, De Andreis, Federici e Valera. La cella di Turati era illuminata. Vennero ammanettati e cellularizzati nell'omnibus che li aspettava.

Si credeva che il processo fosse ancora più sommario di quello che è stato. E ognuno che aveva qualcosa da dire si era alzato nell'ultima notte prima dell'alba, col permesso del capoguardia, a buttar giù qualche nota. Alcuni dei ventiquattro avrebbero voluto che si fosse andati al Tribunale col proposito dell'on. A. Costa, quando era tra gli arrestati al Cellulare.

Il capoguardia è uno sbilucione con tanto di pancia. In questo momento è impossibile dire se egli sia un burbero con del cuore o se sia in lui l'anima dell'aguzzino. Perchè il personale di custodia è come invaso dalla paura di riuscire mite. Parla a monosillabi, ha una voce che sente del carceriere e preferisce dire di no ai detenuti che gli domandano qualche cosa.

Si vedeva che eravamo proprio in una casa di pena. Ogni infrazione al regolamento voleva dire andare sul tavolato di pietra incatenato alle mani e ai piedi. Il capoguardia non ci fece cattiva impressione. Era alto, piuttosto magro, con una voce che faceva sentire il twang americano e con un accento leggermente meridionale.

Se l'infrazione commessa dal detenuto deve essere punita con più di dieci giorni, allora si raduna d'urgenza il Consiglio composto del direttore, del contabile, del capoguardia e del cappellano. Bisognerebbe essere imbecilli per credere all'indipendenza dei subordinati di un direttore di carcere. Una volta fatto questo Consiglio, non si esce che condannati.