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Teresa e la madre vivevano tranquille dalla loro, lavorando anch’esse alla casa futura. Intaccando un po’ di capitale, la madre aveva comprato tela da lenzuoli e da tovaglie e percallo da tende; la mattina Teresa tagliava per il lavoro della giornata e poi insieme infilavano punti a cucire ed orlare.

Il seminarista, che aveva finito di mutare le tovaglie degli altari per la prossima festa, vedendo che padre Ladislao non usciva ancora dal confessionale, si avviò verso di lui. Al rumore di quel passo, il confessore venne fuori. Era straordinariamente pallido in viso, ed aveva uno sguardo incerto che fece chiedere al piccolo chierico: Padre, la confessione l'ha stancato? No, no....

Il mare, il ribollente mare fingeva il tumulto finale d'un banchetto di giganti, con un cozzar di fragorosi metalli fra immense tovaglie arrossate di sangue, di vini scarlatti, e issate, da enormi guerrieri, su punte di lance in un delirio d'ebbrezza e di canti!

Il vasellame di stagno forbitissimo, le bocce, le guastade, facevano un bel vedere sulla tavola foggiata a ferro di cavallo, e coverta di tovaglie tessute ad opera, candide che avrebbero rimessa la voglia in un ammalato agli sgoccioli.

Candia prendeva dalle canestre i mantili, le tovaglie, le salviette; faceva esaminare alla signora la tela intatta; e porgeva via via ciascun capo a Maria che riempiva i tiratoi, mentre la signora spargeva nelli interstizi un aroma e segnava nel libro la cifra.

Una locanda basca, linda e luminosa, con fiori di ciclamini su la tovaglia finemente lavorata, soddisfece alla nostra fame gagliarda e per qualche ora diede ristoro alla fatica della nostra lunga strada. Un ceppo enorme ardeva su la cenere del vecchio focolare, spargeva, col suo rumore di fiamma umida, nella stanza piena di sole un colore d’autunno. Qualche ospite silenzioso rompeva con le sue mani bianche il pane infarinato. Nessuno parlava; i bicchieri, le stoviglie facevano poco rumore; radi passanti traversavano la strada silenziosa; la grande piazza di «pelota» era quasi deserta. Larghi pezzi di montone, cotti con salvia e rosmarino, venivan dai fornelli rossi dell’antica locanda, fumavano su le tovaglie immacolate. Chi le portava era una bella montanara, svelta e forte come una cavalcatrice della Camargue, pallida, senza ombre nel viso, con gli occhi duri, le trecce ravvolte al capo, le anche magre, il seno piccolo, che tremava leggermente sotto il grembiule di fino merletto. Era difficile farla parlare; non rispondeva che pochi vocaboli, con una pronunzia francese dura e cadenzata. C’era in lei qualcosa di primordiale, una specie di lontananza da noi, quasi un’antichit