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Aggiornato: 23 maggio 2025


Il suo alito puzzava di grappa e le maniche della sua giacca sucida erano lastricate del pattume del mestiere. A ogni movimento sputava in terra la saliva negra della cicca che egli rivolgeva come un boccone sotto i denti. Mi ha messo al collo uno straccio sporco come un cencio di cucina. Gli aveva servito per sbarbare un raggio intiero. A ogni rasoiata sudavo come sotto un'operazione chirurgica.

Legò le destre prima, poi le sinistre braccia, a scandalo del sacerdote consacrato alla purificazione dell'anima e del corpo, ginocchio con ginocchio, e più insopportabile ancora al Gesuita fu di trovarsi colla bocca su quella della vecchia, che puzzava come un cadavere. Zambianchi era stato accuratissimo nella legatura, acciocchè i due volti combaciassero esattamente.

Era costei di famiglia elevata, Marfisa detta, sorella a Ruggero, morta per me, basita, spasimata. Per dirvi tutto, io l'aveva nel zero, so dir come l'abbia sopportata, ché le puzzava il fiato ed era pazza, ed anche anche non molto ragazza.

Sogghignava, invece di sorridere, e la bocca giovanile, coi denti bianchi sotto i baffi impeciati, puzzava di acquavite; nel parlare, mischiava un po' di piemontese a un po' di napoletano, e mentre Temistocle ammirava la sua daga e Gian Maria si provava l'elmetto, egli seguiva con l'occhio freddo e indifferente ogni passo della Cammilla per essere pronto a schivarla se gli fosse venuta appresso.

Taddeo, tutto assorto nella paura di un discorso a fare, aveva preso un morto per un altro. Imbattutosi nel funerale dell'ex cuoco garibaldino, si era lasciato rimorchiare dalla folla e dalla banda senza pensare che a Milano non si muore mica uno per volta. Aveva seguitato il corteo e aveva recitato il suo bel discorso senz'accorgersi che il suo morto non puzzava di commendatore. E nemmeno tra gli uditori ci fu chi se ne accorse. Qual'è quel morto che non congiunge la modestia alla virtù, la costanza dei propositi alla bont

I vestiti più bene offrivano i sigari a quelli che non avevano da fumare. In pochi minuti eravamo tutti in una nube, l'uno non vedeva il naso dell'altro. Il fumo purgava il camerotto che alle volte puzzava come una latrina. Verso le dieci o le undici ore eravamo stufi, stufi, più che stufi. Non si sapeva niente, se ci si lasciava andare, se ci si mandava in qualche luogo.

Io e Federici ritorniamo a Finalborgo. La «catena» era composta di noi due. Il vagone cellulare era nuovo e non puzzava di biacca. Le celle erano assai più comode delle altre del primo viaggio. I carabinieri non sembravano cattivi diavoli. I ferri erano noiosi, ma non ci pigiavano i polsi come le altre volte.

Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzzava di alcool. Il fattorino aveva fatto gi

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