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Aggiornato: 28 giugno 2025
Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?». Tal mi fec’ io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno. Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
così fec’ io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. «Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù», mi disse, «a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma.
E qual è quei che disvuol ciò che volle e per novi pensier cangia proposta, sì che dal cominciar tutto si tolle, tal mi fec’ ïo ’n quella oscura costa, perché, pensando, consumai la ’mpresa che fu nel cominciar cotanto tosta. «S’i’ ho ben la parola tua intesa», rispuose del magnanimo quell’ ombra, «l’anima tua è da viltade offesa;
tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco mentre che detto fu: «Perché t’abbagli per veder cosa che qui non ha loco? In terra è terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che ’l numero nostro con l’etterno proposito s’agguagli. Con le due stole nel beato chiostro son le due luci sole che saliro; e questo apporterai nel mondo vostro».
e sì come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, così corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vid’ io sì lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che più lucente se ne fé ’l pianeta. E se la stella si cambiò e rise, qual mi fec’ io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise!
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Li miei compagni fec’ io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.
Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’ io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda.
Allor fec’ io come color che vanno con cosa in capo non da lor saputa, se non che ’ cenni altrui sospecciar fanno; per che la mano ad accertar s’aiuta, e cerca e truova e quello officio adempie che non si può fornir per la veduta; e con le dita de la destra scempie trovai pur sei le lettere che ’ncise quel da le chiavi a me sovra le tempie: a che guardando, il mio duca sorrise.
Quali fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca, si drizzan tutti aperti in loro stelo, tal mi fec’ io di mia virtude stanca, e tanto buono ardire al cor mi corse, ch’i’ cominciai come persona franca: «Oh pietosa colei che mi soccorse! e te cortese ch’ubidisti tosto a le vere parole che ti porse!
Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virtù che la soblima, fec’ io in tanto in quant’ ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond’ ïo ardeva. E cominciai: «O pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
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