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Sappia pigliare il tempo: ché i partiti sono oggi scarsi. CALONIDE. Ascolta. Non vorrei che si dicesse, poi, che avessi fatto, per fargliela pigliar, qualche malia o qualche tratto che non fosse onesto; perché sa ben ciascun quanto in fra loro sono i gradi ineguali. ARTEMONA. Lascia a lui pensare a questo; ché a te non sta male, s'ei fosse ancor da piú. Fa' che la sposi; e lascia dir ciascun.

Quando farem le nozze? CALONIDE. Ora, a tua posta: ché a me non manca se non provedere a certe cosarelle; poi, del resto, possiam farlo istasera. Ma indugiamo ancor duo giorni perché a lui non paia che siam corrivi. E tu fa' che non manchi. A te ne sto. FILOCRATE. Perché? non è giá fatta?

Crisaulo, non avendo potuto patir fuori che duo giorni, apparisce in su la scena andando a sposar Lúcia; ed ha seco Girifalco il quale si dichiara, nel parlar loro, avere da sposar Calonide: il che si mostra essere stato per mezzo di Crisaulo. Vanno adunque insieme ragionando; e con loro è Pilastrino il quale, giunti a casa, licenzia con dir che, di poi cena, si faranno gli sposalizi.

FILENO. Eh! va': l'hai per costume questo voler morire. E poi per chi? Una fraschetta, che, chi la strizzasse tutta, non n'usciria tanto di buono che te n'ungessi un'unghia. Filocrate viene a parlare a Calonide; e riman seco di sposar Lúcia di corto. CALONIDE madre, FILOCRATE giovane, LÚCIA figliuola, GIRIFALCO. CALONIDE. Chi è giú? FILOCRATE. Io sono. Aprite. CALONIDE. Aspettami, figliuolo.

Pensa se è bello! GIRIFALCO. Tu non di' da vero. E come 'l sai? PILASTRINO. Ti voglio dir la cosa. Passava ier da casa di Calonide. Ed erano ivi aspettarlo a la porta duo servi o tre. E mi fermai con loro, alquanto, a ragionare; e intesi questo con mille altre grandezze che di nuovo fa per colei. GIRIFALCO. Oimè! che mala nuova è quella che mi porti, sciagurato!

In fine, ancora in sogno ti chiama e piange e meco si lamenta con dir che tu non l'ami; e ben talora c'è che fare appagarla. LÚCIA. Oh che bugie! Non è giá vero. CALONIDE. Cosí fosse manco in tuo servigio come è da vantaggio di quel ch'io dico. Ma ben sai che poi non staria bene a lei essere ardita e parlar come me. Ma sia pur certo che d'affezion ti avanza. FILOCRATE. Lúcia, è vero?

CALONIDE. Di' che mi parli e qualcosa sará. Ma voglio prima ben consigliarla. ARTEMONA. Questo fie ben fatto. Cosí son per ridirgli. Poi, dimane, vedrò che venga in qua. CALONIDE. Come ti piace. Deh! prega Iddio per me che questa cosa si faccia, se fia il meglio. ARTEMONA. Sempre io 'l faccio. CALONIDE. Piglia questi duo soldi. ARTEMONA. Dio vel meriti e san Francesco. Tu ci sei pur giunta!

CALONIDE. Io te lo dissi, allora, che non s'è fatto nulla di Filocrate s'è per far; ché, se mi ritornasse carico d'oro, non glie la darei. Poi ti dico de l'altro: che non voglio che noi pensiam tant'alto, perché poi non ci venisse come quella fola di colui che voleva andare in cielo con le penne di cera. ARTEMONA. Non fai nulla, se guardi a queste cose. Tu sei savia.

CALONIDE. Io t'avea dato, figliuol, tempo tre giorni, ché potessi pensarvi bene; perché queste cose so come vanno e questo grande amore non dura sempre. Ma, poi ch'in te veggio cosí gran desiderio, non mi pare di poterti mancar; ma ben cognosco quanto sconvenga a te tôrre una donna poverina. CRISAULO. Queste son parole.

CALONIDE. Questo intraviene a tutti. Che hai di nuovo? E tanto piú ch'io dissi che quell'altro volea pensarci e che potrebbe stare, a quello ch'io vedeva, che, a la fine, se l'avesse sposata. Or ti risolvo ch'egli 'l fará. Se l'avessi giá data, fa' ch'io lo sappi.