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Aggiornato: 16 maggio 2025
A calmar quelle ambasce e que' terrori E a consolarsi fra i soavi amplessi Dell'innocente vergine, il cruccioso Padre venìa talor. Con duri modi L'aspreggiava e garriala del suo pianto, Poi commoveasi e l'abbracciava, e preci La supplicava d'innalzar pe' guelfi. E nelle rughe della smorta fronte Ella più e più leggea del genitore I sinistri presagi. Insinüante Sonava un non so che nella pietosa Voce di lei che costringea il canuto A poco a poco a palesarle occulti Sempre novi dolori. Un dì le disse: Più non pregar pe' guelfi! abbandonati Siamo da Dio! Deluse ha mie speranze Il superbo Manfredo: i miei consigli, I preghi miei non cura. Adulatrici Parole ei vuol; darle non so. Un drappello D'infami lusinghieri applaude a tutte Sue tirannie, le suscita, il fa cieco Stromento a loro insazïabil sete Di tesori e vendette. Apportar senno Volevamo e giustizia; abbiam delitti E stoltezza apportato. Ad uno ad uno Da noi si dipartìano i prodi amici: Pochi omai siamo ed esecrati, e all'orlo Dell'estrema ignominia! Oh sciagurate Voci! oh misero padre! I vaticinii Ecco d'Ugo avverati! Il reo vessillo Lascia tu dunque di Manfredo: accetta Di Tommaso la grazia! È tardi, o figlia! Errò Manfredo, ma infelice il veggo: Mai da prence infelice non si scosta Fuorchè il vigliacco! Oh padre amato, pensa... Che vigliacco non son, che con Manfredo Debbo cader. Mai di vigliacco taccia Ad Eleardo non darassi. Ei corse Quando da noi si svincolò, a bandiera D'un prence espulso: audace era il partito, Ma generoso. Non così oggi fora, Correndo a sir cui la fortuna arride. Cessa il tuo supplicar, cessa il tuo pianto: Dimane si combatte, e se non opra Per noi prodìgi Iddio... dimane, o figlia, Più non hai padre! Oh feri detti! Io vengo L'ultima volta a benedirti forse: Con vigor di te degno, odimi: stirpe Di codardi non siam. Tergi le ciglia, Frena i singhiozzi; te l'intìmo. Ascolta: Un patto pongo al benedirti. Quale? Bada che guelfo io moro, e maledetta Sar
Sei mesi dopo ch'egli aveva avuta la mia lettera Pio IX dava, coll'enciclica del 19 aprile 1848, una solenne smentita alle adorazioni dei neo-guelfi e ai sogni dei moderati. Se non che ad anime siffatte tornava facile ogni cosa fuorchè il rinsavire. I neo-guelfi si tramutarono in ghibellini; i moderati, che avevano dissertato a provare la sola via di salvar l'Italia esser nel congiungimento del pastorale colla spada, dissertarono a provare che la spada d'Italia bastava. Nel marzo intanto quella spada, che potea salvare davvero l'Italia, era stata snudata dal popolo nel Lombardo-Veneto e poco prima in Sicilia. E il primo suo lampeggiare in Sicilia aveva convertito i principi agli ordini costituzionali e ottenuto in un subito più assai che non avevano ottenuto le tattiche adulatrici di tutto un anno: il secondo in Milano aveva sgominato un esercito creduto fin allora invincibile e affrancato quasi dal nemico straniero il suolo d'Italia. La vera forza era dunque visibilmente nel popolo. Bastava intenderlo: bastava dire al popolo: prosegui, l'impresa è tua ai principi: alleati tutti, padroni nessuno ai principi, al popolo, all'Europa: vogliamo essere uniti, liberi, forti: vinta la guerra dell'indipendenza, l'Assemblea nazionale decider
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