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La sentenza dei commissari, come che per tutte le considerazioni con lui fosse giusta, al principe Gisulfo non talentò. E' si riputava non solamente dei suoi dritti defraudato, ma insultato nell'onore, col dare importanza a ferita per stessa di niuno momento, e che in certo modo gli ottenebrava la pienezza della vittoria sopra l'arcivescovo. Inoltre, egli definiva la prodigiosa forza di Baccelardo meglio come bravo requisito di pugillatore, che come valentia di cavaliere. Di più, un sospetto lo tribolava per allontanar costui dal combattimento. Vale a dire, che essendo Baccelardo normanno, avrebbe e' forse potuto non dimenticarlo intieramente, quella gente vivendo sollecitissima della sua nazione, ed accordatosi innanzi di qualche verso con Roberto, lasciarsi vincere allora, salvo poi a riscattarsi l'onore della vittoria alcuni dopo. Infine Gisulfo considerava che la sarebbe stata un'onta alla nazione longobarda il non aver saputo mettere in piede un guerriero ad osteggiare un normanno. E queste ed altre moltissime riflessioni, tra generose e villane, andava facendo Gisulfo nel corso della giornata, e pensava come distruggere la fatale sentenza, la quale, a vero dire, non era stata proprio equa, avendo dimenticato affatto Astolfo, che forse meglio di ogni altro si era condotto, e dichiarato Gisulfo il più vigoroso tra i candidati. Ma, sia come vuolsi, avevano giudicato così, e non potevasi da quello recedere, come da tutti i giudizi che hanno spesso più inviolabilit

Ma quando Firenze cadde, dopo l'eroica resistenza, per l'ultima volta sotto i Medici, lo spirito politico cominciò ad osteggiare il Principe, prendendolo per un codice vero della tirannide, e l'evidente intenzione consigliatrice e scientifica del Macchiavelli parve infame. Il secolo cominciava a mutare: la morte politica aveva messo nell'anima di Firenze qualche reazione di vita morale. Del resto la pretesa del libro di essere un trattato, la sua stessa forma, la contraddizione che nello spirito del Macchiavelli l'aveva prodotto, dovevano essere un problema insolubile fino a quando la critica moderna ricostruendo il cinquecento e comprendendone il carattere per mezzo della prospettiva e del raffronto cogli altri secoli, potesse assegnare all'arte ciò che vi si oppugnava come scienza, spiegando nel Macchiavelli le antitesi della sua natura amalgamate colle contraddizioni del suo tempo. Certo per la gente volgare, che divide gli spiriti in categorie, riuscir

Poichè in fondo all'agonia di fondare stato alla sua casa Lione si trovò con tre bastardi, Giulio cardinale poi Clemente, Ippolito e Alessandro, di un tratto preso da non so quale uzzolo di emulazione per Giulio II si mise a gridare: «fuori barbari!» A questo fine aizza l'un contro l'altro Francesco I e Carlo V, i quali non avevano bisogno di stimoli; al Papa piacevano Parma e Piacenza guadagnate da Giulio, e perdute da lui; onde ricuperarle bisognava romperla con la Francia; gli garbavano altresì molte provincie del regno di Napoli, e tutto, magari, se si potesse; ma per questo bisognava osteggiare lo Impero; scelse per amica la Francia; poi allo improvviso lasciata in asso la pratica si accorda con lo Impero: di qui la guerra che il Guicciardino descrive, e della quale fu parte: anco una volta ebbero a sentire i Francesi (comecchè non l'abbiano imparato mai) la terra d'Italia avere destinato i cieli per loro sepoltura; persero Milano, Lodi, Pavia, Como, e Parma e Piacenza; queste due citt