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Tamburi e trombe rumoreggiano improvvisamente, incessantemente. Un fremito convulso invade ogni astante: l’umana giustizia è fatta! I Bianchi ginocchioni pregano pel trapassato; il cappellano ne benedice il cadavere, che, non più come per lo addietro, rimane fino a tarda sera, per una giornata, penzoloni, ma vien presto rimosso, e se i delitti non esigano altro, trasportato entro una cassa alla chiesa dei decollati, nel vicolo S. Antoninello lo Sicco, sepoltura ordinaria dei rei di Stato; intanto che la folla superstiziosa si precipita verso la forca, affamata d’un brincello della sozza fune, gi

La duchessa Elena si pose in ginocchio sull'uno dei due cuscini di seta d'oro fattivi collocare espressamente. Alla sua dritta, innanzi all'altro cuscino, ritto in piede, immobile, tutto ferrato e sempre colla buffa calata sul viso, il maresciallo Lautrec. Venne finalmente il cardinal Sanseverino che doveva sposarli. Pronunciate le prime parole latine, disse sottovoce il Sanseverino al Lautrec: Siamo all'altare, levate la buffa. A queste parole, io che gli stavo quasi in faccia sull'ultimo gradino della balaustrata, e benissimo potevo notare ogni cosa, lo vidi star perplesso un momento, e quando poi alzò il braccio per levarsela in fatto, quello gli tremava forte come una canna sbattuta. Si scoperse alla fine; uno strido acuto della duchessa, che balzò in piedi spaventata, fu la prima cosa che successe a quell'atto, o subito un commovimento universale, un bisbiglio per tutta la moltitudine astante. Se invece della figura del Lautrec si fosse piantato li uno spettro, una apparizione spaventosa, che so io, un carcame d'uomo con teschio da morto che si movesse, la maraviglia, l'orrore, il commovimento non sarebbe stato maggiore. Io non ti saprei dire a che cosa potesse allora somigliare la faccia del Lautrec; soltanto io so, che faceva ribrezzo e spavento, tempestata com'era, guasta, mutilata dalle ferite, schifosa, e la sua voce che, come t'ho detto, m'era parsa così alterata, dipendeva da ciò, che uscendogli pel naso, del quale non gli rimaneva che la nuda e secca cartilagine, rendeva quel suono che d

Qual suole Al tronco d'un'altera arbore, o ai fianchi D'un illustre castello arrampicarsi Co' torti rami la paffuta zucca; Fatta superba de l'aggiunta altezza Gl'indiscreti rigogli intorno spande, E, guardando le magre erbe da l'alto, Scorda l'umil radice e al Sol rosseggia; Tal di Dante a la vasta ombra seduto Sua fama impingua il chiosator Morene, E la frase imbroccando e il verbo e il nome Del poema divin, lancia d'intorno Tal furia di cementi e di saliva, Che scrocca il plauso al sonnecchioso astante.