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Aggiornato: 7 maggio 2025
Oh, fece Folco sorridendo. Sei gelosa d'Ariberto? Io temo ch'egli non sia sincero, rispose la contessa. Folco frenò a stento un gesto d'impazienza. Ma che vuoi? Finora non ho avuto da lui se non parole molto savie: credo ch'egli mi sia veramente affezionato e che la sua amicizia onesta e la sua esperienza mi siano utili. La sua esperienza? esclamò Gioconda.
Folco si chiuse nel suo studio; era annientato dalla rivelazione. Riudì all'orecchio il ritornello d'Ariberto: «La donna vuole un padrone: un pa-dro-ne!» Gioconda l'aveva trovato: egli, Folco, non era capace di far da padrone; egli era un pover'uomo, un letteratoide, un ambizioso andato a male. Rise beffardamente. Chi sa? disse ad alta voce. Chi sa ch'io non sia capace di far da padrone?
Che chiude l'êra delle pazzie giovanili. Erano questi gli studi d'Ariberto Ariberti; così viveva egli, ciondolandosi, coll'isocronismo comune ai pendoli e agli animi deboli, dalle marchese di San Ginesio alle Giuseppine Giumelle, dalle Giselde alle Marie, dalle Dore alle Euterpi, dai Bertoni ai Ferreri e dai Candioli ai Priori. Fatto il male, si pentiva; l'indole sua generosa portava così.
Folco gli corse incontro a ringraziarlo della visita inaspettata; ma si arrestò vedendo l'espressione dolente, grave, ch'era sul volto d'Ariberto. Folco, disse questi dopo essersi inchinato alla contessa, io devo compiere un incarico molto penoso. Mio Dio! esclamò con voce soffocata il giovane. Sta male la mamma? No; si tratta di tuo padre; devi partire subito.
Per lui ella aveva ripreso amicizia con certe famiglie presso le quali era certa d'incontrarlo; ed egli per lei non mancava a una festa, sebbene di solito per lo passato se ne astenesse, perchè non ballava e non poteva divertirsi; piccole gradazioni, che allo sguardo penetrante d'Ariberto non andavano perdute.
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