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sua cugina; 55 anni; donnone atticciato, dalla faccia rinfichita, gialliccia, itterica fin nelle labbra smorte. Affetta un fare e un parlare mellifluo, sotto al quale traspare acre e in continuo fermento il veleno accumulato in tanti anni di sterili aspirazioni e di voglie insoddisfatte.

Che si sentisse dentro lui stesso non lo sapeva: era un malessere, un'oppressione, un'insofferenza, che lo rendevano odioso a se stesso; fra tutto lo impensieriva ora come un intuito delle disillusioni che gli toccherebbe a sopportare; indovinava le aspettative insoddisfatte, cui da un momento all'altro si troverebbe di contro nella sua piccola vita serale, della quale si faceva il conto che il tempo cattivo dovesse romper le abitudini.

Sandro era matto davvero; matto da legare. Egli non viveva che per la sua Lalla, non dormiva più, non mangiava più, non parlava più con nessuno. Camminava per la campagna i giorni interi, fabbricandosi castelli in aria per l'avvenire, e mandando intanto a gambe levate il suo stato presente. Si sentiva ammalato di spirito e infiacchito. Tremava del domani, ch'egli, a occhio nudo, spogliandolo degli smaglianti colori che gli prestava la sua fantasia, sentiva prepararsi ben triste; e allora, pauroso, si ingolfava tutto nell'oggi, e anche non c'era altro che una serie di dolori e di desideri, di smanie acute e insoddisfatte. Non lavorava più; fuggiva i compagni, le scampagnate festevoli e chiassose, delle quali un tempo era stato il capo più ameno. Divenuto superbo, lunatico, sospettoso, si era creato una infinit