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Era un bel giorno di state nel 1836. Sul declinare quel era stato limpidissimo oltre l'usato, ed il clima tutto fuoco veniva rattemprato da fresco venticello marino; una festicciuola domestica aveva avuto luogo in quel giorno, ed in essa si erano moltissimo rallegrati danzando coi negri Antonio, il giovinetto Carlo e la vaghissima Ofelia, tutti e tre figli di Giovanni e di Rosina. Sotto le benefiche ombre dei banani e dei cocchi, nel parco del palazzo, aveva avuto luogo la danza. Quando il sole si avvicinò all'occaso una frugale refezione era stata imbandita ai danzatori sull'erba fiorita. Mille augelli di variopinte piume facevano risuonare l'aura di melodiosi concenti. Sotto un padiglione di verzura stavano assisi il governatore e Rosina col ciglio umido per pianto di tenerezza nel mirare tanto allegri i teneri figliuoletti; e la stessa eternamente malinconica Angiolina si era quasi lasciata abbandonare dalle tetraggini, a quelle amabili scene. Dalle vicine boscaglie ad un tratto si era udito il suono flebilissimo di un liuto ed una voce di donna soavissima aveva intonato la seguente patetica canzone: Per il mondo vanno errando Madre e figlio abbandonati, Nulla, ahi! nulla omai sperando Fuorchè sterile piet

Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna ella sentenziò, con una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente faccia. Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore.... Per conquistare che? I cuori degli uomini. Bella conquista! Non l'apprezzate più? No, Serra ella disse, profondamente. Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva.