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Aggiornato: 27 maggio 2025
Questi versetti d'un frammento d'iscrizione araba furono i primi che Ermanno Raeli spiegò quando, all'arrivo di Giulio di Verdara e delle signore, la comitiva cominciò il suo giro. La contessa Rosalia di Verdara poteva avere, a quel tempo, poco più di trent'anni. Alta, slanciata e flessuosa come un ramo di palma, bruna dalla carnagione leggermente dorata, dagli occhi vivi e profondi, ella riuniva la simpatia del più puro tipo siciliano all'eleganza e allo spirito di una parigina. Tutto in lei rivelava la gran signora di razza, l'agevole sicurezza di sè, la padronanza che esercitava dintorno, la distinzione del tratto, il modo di dire le cose più indifferenti. Appena suo marito ebbe pronunziato il nome di Ermanno, districato il braccio dal mantello che ricopriva l'abito di velluto e gros grain mordoré, chinando amabilmente il capo su cui portava una capottina analoga, guernita di un grosso colibri bianco, ella gli aveva stesa la mano: «Io gi
ERASTO. O Dio, che intendo! ecco districato l'intrigo d'una intricatissima comedia: questa luce ha disgombrato tutte le tenebre del mio intelletto. Ho tanto legati i sensi che non so se sia vivo o morto: l'anima mia sta cosí confusa tra tanta meraviglia e allegrezza che non può mostrar quel mar di gioia dove or nuota. Ecco passo da un abisso di affanni ad un mar di delizie!
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