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Lassù, nel febbraio del 1820, presso alcune grotte sepolcrali sotto la cinta delle vecchie mura di Melos, un povero contadino, a nome Jorgos, stava lavorando di zappa intorno ad un vecchio ceppo d'albero, che voleva sradicare da un ciglione di terra. Ai colpi del contadino, il ceppo, scambio di balzar fuori, si affonda in una buca. Jorgos, senza volerlo, ha scoperto un ipogèo, una specie di grotta quadrata, larga da quattro a cinque metri e profonda altrettanto, rivestita d'intonaco, non senza indizii di quadrature policrome. Da buon greco moderno, che conosce il pregio di simili incontri, Jorgos discende nel sotterraneo, e trova, mezzo affondate nel terriccio, parecchie erme di Dei, come un Mercurio, un Bacco indiano, e finalmente il torso d'una Venere, mancante delle braccia e di tutta la parte inferiore, dall'anca in giù. Lavora indefessamente e trova il resto della statua, fino al plinto, insieme con rottami di braccia e di mani, di zoccoli, d'iscrizioni e via discorrendo. Da quegli avanzi non c'è modo di ricomporre le braccia della Dea. Ci sono, per esempio, tre mani; ma quali sono veramente le due che le convengono? Jorgos non sta a beccarsi il cervello; ha il grosso della statua, e questo gli basta per capire che egli tiene in poter suo un capolavoro dell'arte antica e che potr

Per tal modo gl'intendenti di cose artistiche potevano ammirare le opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d'altri buoni frescanti della scuola genovese, le quadrature dell'Adrovandini, le prospettive degli Haffner, e gli ornati recenti condotti con finissimo gusto e accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso Michele Canzio.