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SENNIA. E come facevano? LALIO. Che so io? Si serrorno a chiave entro la camera. SENNIA. Quando apersero poi, che facevano? LALIO. Nulla: l'avevano fatto giá. SENNIA. Menti per la gola! se la porta stava serrata a chiave, come vedevi che si facessero? LALIO. Dava qualche occhiatina per le fissure e per lo buco della chiave.

LAMPRIDIO. Partitevi di qui: andate a gridare al mercato. EUGENIO. Andremo a gridare dove s'ascolteranno le nostre ragioni e si scopriranno l'altrui vigliaccherie. SENNIA. Lasciategli andare, Eugenio mio, che giá si partono. TEODOSIO. Ricordati, moglie, che quando mi desti le tue primizie, mi desti il possesso ancora della vita e del tuo core.

Onde la sua astuzia, l'ardir della gioventú, la credulitá di Sennia, la malignitá di servi l'aranno servito per ruffiani. EUGENIO. In questa cittá, dov'è tanta giustizia, si trovano le genti cosí cattive? TEODOSIO. Le genti cattive si trovano in ogni luogo.

SQUADRA. E vo' che entrando in casa diciate, tu, vecchio: O Sennia, consorte cara, tu sei pur viva?, e tu, giovane: O Olimpia, sorella diletta, o madre cara!; e che vi abbracciate e lasciate cader dagli occhi due lacrimette come per tenerezza, e simili gesti e parole che sogliono farsi a parenti non visti; e bisognando sappiate rispondere a queste cose....

TEODOSIO. Figlio, il vederci liberi di man di quei cani e il desiderio di riveder la patria ci soveniva di cibo e di riposo, e sopra tutto il voto fatto di portar sempre questi ferri al collo. E se trovassimo Sennia la tua madre e Olimpia sorella vive, che gioia sarebbe la nostra! O Dio, fa' per pietade che se ebbi trista fortuna in goderle, l'abbia almen buona in ritrovarle vive!

SENNIA. Oimè, che questa parola m'ha veramente passato il core, ché giá mi ricordo avergli io detto questa parola in quel tempo, penso che altra persona l'ha potuto saper giamai che accadette fra noi duo soli. Io non so a chi creder io. Dio mi liberi di qualche sciagura!

SENNIA. Dimmi, che vedesti? Oh quanto mi fa penar questo ghiottarello! presto, che ti possi fiaccare il collo! LALIO. Avertete ch'io non dico che il fratello e la sorella stavano abbracciati insieme; mai Olimpia diceva: Fratel mio! che il fratello con un bacio non le togliesse di bocca le labbra, la lingua e la parola insieme. Poi dissero che si volevano far fratelli e sorelle carnali.

SQUADRA. A tempo vi veggio, Sennia. SENNIA. M'indovino la nuova. SQUADRA. Voi dovete saper che voglia. SENNIA. Che si mariti mia figlia questa sera col capitano. SQUADRA. Tutto il contrario: a rinunziarla e sciorsi dalla promessa. SENNIA. Come questo? SQUADRA. Me ne dimandate ancora? non si sa per tutto Napoli che un romano sotto nome d'esser vostro figlio s'ha goduta vostra figlia?

Tu pur sei Lampridio mio figliuolo che ti ho mandato di Roma per studiare a Salerno. SENNIA. Costui si dimanda Eugenio ed è mio figlio ed è stato venti anni in Turchia e non attese a studio mai. FILASTORGO. Che Eugenio, che Turchia, che parole son queste che ascolto? LAMPRIDIO. Vo' partirmi, ché la tua perfidia cominciata non finirá tosto. Andiamo su, madre. SENNIA. Andiamo.

TEODOSIO. Io veramente son Teodosio padre di Olimpia, e questo è il vero Eugenio mio vero figliuolo! EUGENIO. E siamo stati venti anni in man di turchi e abbiamo rotta la prigione e siamo venuti a Napoli per saper se fussero ancor vive. SQUADRA. Oh oh, come risponde quest'altro a tuono, alle consonanze! TEODOSIO. O Sennia molto amata, o Sennia poco goduta e molto sospirata!