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Alcuni tra gli amici dei Bandiera s'illudevano in quei giorni a sperare che l'arciduca Federico, fratello della regina di Napoli, s'indurrebbe, allievo com'era stato, del contr'ammiraglio, e condiscepolo e commilitone d'Emilio, a intercedere spontaneo per essi: poco esperti conoscitori dei principi e della fredda, infernale, immutabile politica austriaca.

Ad onta dei bandi viceregali e delle promozioni testè menzionate, l'esercito italico rimase attonito e costernato in sulle prime dalla notizia dell'armistizio conchiuso fra il principe Eugenio e il maresciallo Bellegarde. Ma ben presto si dileguò quella costernazione. Il generale Teodoro Lecchi assicurò l'esercito che il vicerè non s'indurrebbe giammai ad abbandonarlo, e che ogni sforzo di lui tenderebbe, all'incontro, a stabilirsi fermamente in mezzo all'esercito stesso ed in Italia. Le quali assicurazioni mutarono repentinamente in trasporti di gioia e di riconoscenza le mormorazioni che prima si erano udite. Gli è certo, di fatti, che i generali Fontanelli e Bertoletti, partitisi pria del 20 d'aprile da Mantova per a Parigi, e latori di istruzioni ufficiali per non chiedere altro che la conservazione e l'independenza del reame d'Italia, erano stati inoltre incaricati, non solo dal vicerè, ma e dall'esercito, di far instanza acciò al principe Eugenio venisse data la corona italica. Intanto l'avviso ufficiale del conchiuso armistizio, e l'ordine di convocare il senato per la nomina dei due oratori del governo da spedirsi a Parigi, erano gi