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In qual anima nata sotto le piú maligne stelle del cielo, in qual spirito uscito dalle piú cupe parti dell'inferno, vestito d'umana carne, ha potuto capire sceleraggine come questa? DON FLAMINIO. Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltá che ho usata contra voi, usate voi contro me.

Ho cosí deliberato; e le cose deliberate si denno subbito esseguire. SIMBOLO Ecco don Flaminio vostro fratello. DON IGNAZIO. Presto presto, scampamo via, ché non mi veggia qui ed entri in sospetto di noi. SIMBOLO. Andiamo. DON FLAMINIO giovane, PANIMBOLO suo cameriero. DON FLAMINIO. Panimbolo, quando vedesti Leccardo, che ti disse?

SIMBOLO Se state cosí invaghito di costei, perché trattar matrimonio con la figlia del conte de Tricarico e ci avete posto don Flaminio vostro fratello per mezano? DON IGNAZIO. Quando piace a' medici che non calino i cattivi umori ne' luoghi offesi, ordinano certi riversivi: io per ingannar mio fratello, ché non s'imagini che ami costei, lo fo trattar matrimonio con la figlia del conte.

LECCARDO.... Però non è meraviglia se mi sento cosí leggiero: non mangio cose di sostanza.... DON FLAMINIO. Volgiti qua, Leccardo. LECCARDO. O signor don Flaminio, a punto stava col pensiero a voi! DON FLAMINIO. Parla, ché la tua bocca mi può dar morte e vita. LECCARDO. Che! son serpente io che con la bocca do morte e vita? La mia bocca non morte se non a polli, caponi e porchette.

LECCARDO. Sempre su gli amori! DON FLAMINIO. Se ti scaldasse quel fuoco che scalda me, diresti altrimenti. LECCARDO. Io credo che l'amor delle femine scaldi; ma l'amor del vino scalda piú forte assai. DON FLAMINIO. Che novelle? LECCARDO. Dispiacevolissime. Don Ignazio avendo trattato col padre, ave ottenuto Carizia.

Miraculosa gagliardia di quel muletto che porta cosí sconcio elefantaccio! CALANDRO. Fulvia! o Fulvia! FULVIA. Messer, che vuoi? CALANDRO. Fatti alla finestra. FULVIA. Che c'è? CALANDRO. Vuoi altro? Io vo insino in villa, ché Flaminio nostro non si consumi drieto alle cacce. FULVIA. Ben fai. Quando tornerai? CALANDRO. Forse stasera. Fatti con Dio. FULVIA. Va' in pace, col mal anno.

DON IGNAZIO. La vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che figlia! quella ch'amava piú che l'anima sua, a cui se è pesata la morte, assai piú pesará il modo della sua morte. DON FLAMINIO. Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar in voi, e li restituirò la fama come posso. DON IGNAZIO. Ecco che giunge.

DON FLAMINIO. Presto: come la guadagnaremo? PANIMBOLO. Ancora non avemo cominciato ad ordire, e volete la tela tessuta! qui bisogna tanta fretta, ché la fretta è ruina de' negozi e le subbite resoluzioni son madri de' lunghi pentimenti. Sappiate che non è piú facil cosa che guastar un matrimonio prima che sia contratto: uno solo sospetto scompiglia il tutto.

LECCARDO. Oimè, quella faccia piú bianca d'una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, quei labrucci piú cremesin d'un presciutto, quella..., ahi! che mi scoppia il core,... DON FLAMINIO. Che cosa? sta male? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. Ecci pericolo della vita? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. È morta? LECCARDO. Peggio! DON FLAMINIO. Che cosa piú peggio della morte?

LECCARDO. Come dunque volea mangiarmele crude? bisognava che fussero prima cotte. Se volete indovinar, indovinate a voi stesso quanto desiate saper da me. DON FLAMINIO. Il malanno che Dio dia a te e alle tue chiacchiare! LECCARDO. Se non lasciate parlar a me prima, come volete che parli io? DON FLAMINIO. Parla in tua malora e finiscila presto! LECCARDO. Se non mi lasciate parlare, non finirò mai.