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DON FLAMINIO. Io ben conosco ch'è un bugiardo: pur sento da lui qualche rifrigerio e conforto. PANIMBOLO. Scarso conforto e infelice refrigerio è il vostro. DON FLAMINIO. Ad un povero e bisognoso come io, ogni piccola cosa è grande. PANIMBOLO. Anzi a voi, essendo di spirito cosí eccelso e ardente, ogni gran cosa vi devrebbe parer poca.

DON FLAMINIO. Non piaccia a Dio che ciò sia! ché se per altre cortigianucce di nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa tu che farebbomo per costoro; e questa ingiuria io la sopporterei piú volentieri da ogni uomo che da mio fratello. PANIMBOLO. Egli da quel giorno della festa è divenuto un altro.

PANIMBOLO. O Dio, non v'è stato affermato per tante bocche di persone di credito che non sieno persone in Salerno piú d'incorruttibil onestá di queste, e che invano spera uomo comprarse la loro pudicizia? voi in tanto tempo che la servite ne avete avuto un buon viso. DON FLAMINIO. Tutto questo so bene. Ma che vòi che faccia? non posso voler altro, perché cosí vuole chi può piú del mio potere.

DON FLAMINIO. Don Ignazio, non vi partite; forse vi porterò alcuni de' suoi abbigliamenti e de' doni mandati. DON IGNAZIO. Aspettarò sin a domani. Che dici, Simbolo, aresti tu creduto ciò mai?

LIDIO. Belli son certo; e piú che non sapete voi. FESSENIO. Di ciò a bell'agio parleremo. Attendasi oggi a quel che piú importa. Dissi drento a Fulvia questa esser Santilla tua sorella: di che ella si mostrò oltra modo contenta; e conchiusemi al tutto volere che sia moglie a Flaminio suo figliuolo.

DON FLAMINIO. Leccardo mio, parla presto, non mi far cosí morire: come sará mia? LECCARDO. Manda a tôr diece caraffe di vino per inumidir il palato e la gola, che stanno cosí secchi che non ne può uscir la parola. DON FLAMINIO. Arai quanto vorrai, e venti e trenta; ma parla presto. LECCARDO.... la vostra Carizia è maritata.... DON FLAMINIO. Maritata? Tu sia il malvenuto con questa nuova!

DON FLAMINIO. Facil cosa è ingannar un altro, ma ingannar se stesso è molto difficile.

E questa è l'allegrezza che mi portavi? LECCARDO. Io non penso che possa esser migliore. DON FLAMINIO. E dove la fondi? LECCARDO.... Non mi avete voi detto che non la desiate per moglie?

DON FLAMINIO. Leccardo mio, come io so medicar i tuoi dolori, cosí vorrei che medicassi i miei! LECCARDO. Non dubitar, ché quando toglio una impresa, piú tosto muoio che la lascio. DON FLAMINIO. Vieni a mangiar meco questa mattina. LECCARDO. Non posso: ho promesso ad altri. DON FLAMINIO. Eh, vieni. LECCARDO. Eh, no. DON FLAMINIO. Fa' ora a mio modo, ch'una volta io farò a tuo modo.

DON FLAMINIO. Se vi fusse piú tempo, ve lo farei udir da mille lingue; ma perché viene la notte piú tosto che arei voluto, venete meco alle due ore, che andrò in casa sua: vi farò veder le sue vesti e i doni che l'avete mandati, e ce ne ritornaremo a casa insieme. DON IGNAZIO. Se me fate veder questo, farò quel conto di lei che si deve far d'una sua pari.