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DON FLAMINIO. Dunque è pur vero che l'anima mia sia morta, e seco morto ogni mio bene; e sepolta ancora, e con tanta bellezza sepolta ogni mia gioia e me sepolto in un infinito dolore! Gli occhi, che avanzavan il sol di splendore, son chiusi in eterno sonno, e la bella bocca in perpetuo silenzio. Ahi, non fia vero giá ch'essendo tu morta, io voglia restar in vita.

Che mi curo io di robba? son altro che miserabili beni di fortuna? L'onestá e gli onorati costumi son i fregi dell'anima; ricchezze ne ho tante che bastano per me e per lei. Or non potrebbe essere che, trattenendomi, don Flaminio mi prevenisse e se la togliesse per moglie, ed io poi per disperato m'avesse ad uccidere con le mie mani?

Fuggirò il suo aspetto, ch'avendoli cosí a torto ingiuriato la figlia, non ho piú animo di comparirgli innanzi. DON FLAMINIO. Onoratissimo Eufranone, ve si appresenta innanzi il reo di tanti mali, accioché con moltiplicato supplicio lo castighiate.

PANIMBOLO. Cosí son sicuro io che don Ignazio sta innamorato d'altra come son vivo. Ma come ch'egli è d'ingegno vivace e pronto, imaginatosi la fraude, rispose in cotal modo. DON FLAMINIO. Mi doglio del tuo mal preso consiglio.

LECCARDO. Non si può, perché è cosa troppo lunga si può esprimere in una parola; e la stanchezza m'ha tolto il vigor del parlare. DON FLAMINIO. Mentre hai detto questo, aresti detto la metá. LECCARDO. La vostra Ca... Cari... Carizia... DON FLAMINIO. La mia Carizia.... O buon principio! spediscela, di grazia. LECCARDO.... sará vo... vostra:...

DON FLAMINIO. Non vo' risposta ché non ci è tempo: gli effetti rispondino per te. LECCARDO. La notte viene: non mi trattenete, ché è vostro danno; io vo con buona fortuna. DON FLAMINIO. A rivederci. LECCARDO. A riparlarci. MARTEBELLONIO. Non ho lasciato fornai, salcicciai, macellari, osterie e piscatori che non abbia cerco per trovar Leccardo, e non ho avuto ventura di ritrovarlo!...

DON FLAMINIO. Prendi fiato; se non, che farai perdere il fiato a me. LECCARDO. Per la soverchia stanchezza mi sento morire. DON FLAMINIO. Dammi la nuova prima e mori quando ti piace. LECCARDO. Quanto ho piú voglia di dire, manco posso. DON FLAMINIO. Dimmelo in una parola.

Voi avete un'altra figliuola chiamata Callidora, non men bella e onorata che Carizia: facciamo che don Flaminio sposi costei, accioché le genti che hanno inteso il caso della sorella non sospettino piú cosa contraria all'onor suo.

DON FLAMINIO. Ella è mia moglie; e non comporterò mi sia tolto quello con violenza che mi ho procacciato per l'affezion del mio zio e acquistato con ragioni dal padre e con la fede. Fatto il contratto, volete voi rompere le leggi del matrimonio? DON IGNAZIO. Io non rompo le leggi del matrimonio, ma difendo le mie ragioni con un'altra legge.

DON FLAMINIO. Veder la mia Carizia in poter d'altri per un sol ponto, ancorché fusse pur certo possederla per sempre, non mi comportarebbe l'animo di soffrirlo. E con chi è maritata? LECCARDO. Bisogna che cominci da capo. DON FLAMINIO. O da capo o da piedi, purché la spedischi tosto.