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Chi è? chi è? chi è? presi a dire con furia, colla voce affogata nei singhiozzi, mentre colla mano scendevo a cercare nella tasca di dietro un arlecchino rosso coi campanelli. Chi è questa signorina? E lei mi guardava cogli occhi larghi e curiosi come fanno tutti i bambini.

Era lei, era Gina! La trovai, la rinvenni, non so come, nelle tenebre, tra gli sterpi, distesa per terra.... Gina! Lasciatemi morire! Sono io, sono Beppe! il tuo Beppe! Mi parve che udendo il mio nome, si addormentasse. La presi sulle spalle e lento lento, mentre il cuore e la testa non sapeva più dove fossero, raggiunsi, la mercè di Dio, la mia soglia. La adagiai sul letto, livido, estenuata.

Giacomo si tolse le violette dall'occhiello e più per abitudine che per deliberato proposito, strinse leggermente le dita di Lalla: e Lalla presi i fiori li chiuse, con molta cura, nel suo ventaglio di pizzo.

Due giorni dopo, il 4 settembre, era la fiera al Palazzo presso Travale, e Olivo Pina vi andò per accordi presi col Guelfi, a riportare a voce le diverse particolarit

L'uomo e la moltitudine degli uomini sulla scena non debbono più imitare facilmente il comune parlare, ma debbono cantare, come quando noi, inconsci del luogo e dell'ora, presi da un'intima volont

»Che ti pare, Eugenio, della mia abnegazione, del mio coraggio?... Vi trovo sublime!... continuate!... E presi l'atteggiamento del credenzone stupefatto.

Io che mi chiamo Famazio, pensai subito che avesse smenticato il nome, che sono simili Fazio e Famazio; e me le presi per mie.

Dal terrazzo, vestito, tutto pronto, cavando l'orologio nella penombra della luna tramontata e del giorno che sorgeva, vidi aprirsi una ad una le case dei contadini. Nell'albergo dormivano ancora. Pure, sapendo che col treno delle sei e mezzo aspettavo mia moglie, si alzarono. Mi nascosi, vergognandomi di farmi vedere così premuroso. Ma dalla finestra vedevo sempre la stazione, che s'era svegliata anche lei. Sotto la porta un facchino si stirava le braccia. Uscii, non ne potevo più. Nel crepuscolo mattinale la serva scopava, in basso, la stanza da pranzo. Le dissi che andavo a passeggiare. Sorrise. Non capii quel sorriso. Ero inebetito. Come l'ora si appressava, cresceva in me la sicurezza che non sarebbe venuta. Non viene, non viene mormoravo. Me ne andai sulla via maestra, parallela alla via ferroviaria. Andavo incontro al treno, come un pazzo, come un bambino. Poi la via maestra faceva, un gomito; tornai indietro, alla stazione. Presi una tazza di caffè, poi un wermouth nel piccolo caffè, parlai col padrone. Era l'alba, ma grigia. Forse il sole non sarebbe uscito, forse ella non sarebbe venuta. Anzi era certo che non veniva. Aspettavo per scrupolo di coscienza, quasi per dovere. Avrei potuto andarmene perchè non veniva. D'un tratto un debole fischio, un suono di campanella, mi precipito fuori, in tempo per vedere un treno nero, bagnato d'umidit

Io mi accostai allo stipetto, toccai le lettere che componevano il nome, ed una tavoletta rientrò, lasciando in vista un tiratoio. Il duca conservava quivi i suoi crachats, i suoi gioielli, i suoi danari, delle cedole di Banca. Un sacchetto in velluto violetto attirò i miei sguardi. Lo presi. Egli me lo strappò di mano, dicendo: Sono quivi delle carte di mia madre.

Ed io (aveva risposto) voleva buttar giù nel fosso la mamma e la figliuola; ma per fortuna, siccome ero un po' briaco, presi la bimba e mi affacciai alla finestra, e gi