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TRASILOGO.... e che t'appicchi,... MASTICA. Se vuoi esser mio compagno lo farò, ché ambiduo ne abbiam ciera. TRASILOGO.... ché non altrimenti potrai scappare! MASTICA. Che? TRASILOGO. Un canchero... MASTICA. Che Dio non mi dia! TRASILOGO.... che ti possa venire,... MASTICA. Per che cagione? TRASILOGO.... acciò ti spolpe insino all'osse! MASTICA. Io non v'intendo.

Stettero muti alcuni istanti: finalmente il Conte discorreva, volgendo la testa: «Gisfredo, dove sei ito? ritornami allato; perchè ti stai discostoPoi vedendosi il pugnale nella destra, lo riponeva continuando: «Vivi sicuro, non sai che nessuno uomo adesso mi è più necessario di te?» e tra i denti aggiungeva: «La tua ora non venne.» «Dice bene il Messere, v'intendo anche ritto

No, la Costanza Sogno non fu: meco rimase. Io sento Il Nume suo che mi riempie il petto. V'intendo, amici Dei: l'augurio accetto. Di te ragiono Quando parlo di lui. Quel nome illustre È un vel di cui si copre Il rispettoso mio giusto timore. Ma Scipio esalta il labbro e Carlo il core. Ah perchè cercar degg'io Fra gli avanzi dell'obblio Ciò che in te ne dona il Ciel!

O cedri incliti, invano, V'intendo, invan voi non mettete eterne Entro al monte di Dio l'alte radici; Però ch'eterna, a par di voi, si asside La speme del trïonfo entro al mio petto. Voi rivedrò! Da queste infauste arene, Che del mio sangue tinse Tito, delizia de l'umane genti, Da ove sorge la notte e il giorno viene, Da tutti e quattro i venti, Quel divino voler, ch'indi mi spinse, Richiamer

No, giammai; v'intendo: un altare accoglier

V'intendo, messere; si frapponeva tra Voi e donna Beatrice la torbida figura dello sgherro. Ma credete Voi che Beatrice di Bovadilla potesse mutarsi da quella di prima perchè il suo indegno fratello vi faceva una guerra codarda quanto feroce? Avevate Voi offeso quell'uomo, perchè l'onor della casa facesse tacere nel cuor suo le voci dell'antica amicizia? Ben dite; ripigliò l'Almirante.

Vi ascolto, signore, mormora Alberada con voce tremante, vi ascolto bene, ma non v'intendo. Solamente mi accorgo che voi, per solito avaro di parole e cupo più delle prigioni di questa Tomba, siete dominato da delirio. Chi beve il vino s'inebria, chi si caccia nel fuoco si brucia. Questo delirio desta in me la vostra presenza.

D'allora in poi io non v'intendo più: cadrei scettico e disperato pensando alla pazienza sovrumana da voi sostituita alla fiamma di patria che avevate comune con me. E credo oramai che non amiate più, che fosse in voi tutti bollore di sangue giovanile, di riazione, di ambizione, di gloria, non adorazione dell'idea, non culto d'Italia.

Non vi rivolgete al mozzo Bonito; disse il conte Fiesco, tentando anch'egli di mettere nel doloroso colloquio una nota men triste. Egli non vi saprebbe rispondere, non essendo nato in Europa, educato dalla prima adolescenza alle leggi, alle consuetudini, ai riguardi del nostro mondo decrepito e saggio. Piccole paure? V'intendo; col vostro gran cuore non ce ne sono; e molta altezza di sentire, e il rispetto che meritate, potevano tenervi guardata come in una rocca inaccessibile. Ma egli, che ha l'anima grande, poteva temere di non aver così forte il cuore, e di non poter resistere alla violenza di un sentimento, che noi tutti sappiamo come sia indomabile. Qual uomo potrebbe giurare, amando davvero, di non varcare certi confini? E allora, vedete, le piccole paure ingigantiscono, gli scrupoli assalgono, e non sono più piccoli. Si pensa alle ciarle assassine del mondo, e si teme per la donna virtuosa, fino a quel giorno onorata, che l'amor nostro, eccedendo nelle sue dimostrazioni, che la sua divina bont

LECCARDO. Le dirò che se non vi ama, con un soffio la farete volar per aria o, con un fúlgore degli occhi vostri mirandola, l'abrusciarete. MARTEBELLONIO. Dille ciò che tu vuoi, ché le cortesi parole d'un mio pari minacciano tacitamente. LECCARDO. Ella spasima per voi. MARTEBELLONIO. Poiché è cosí, dimmi: quando? come? Non m'intendi? LECCARDO. V'intendo bene; ma non so che dite.