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³⁸⁴ Breve Ragguaglio, pp. 19-20. In quest’ultima citazione si accenna ad una pratica, forse la più crudele che sia esistita per la cura della tigna, la cuffia di pece.

Dal capo vien la tigna, diceva il Luciani dal suo cantuccio; però incominciamo a perquisirle la testa: separate in prima i capelli per bene, guardate con diligenza la cotenna... voi, signora Dorotea, forbitevi gli occhiali... ve lo ripeto per la ventesima volta... voi le troverete una macchietta livida, o nera un poco più grande di una lenticchia... come sarebbe a dire un granchio secco... avete trovato?

Omè, vedete l’altro che digrigna; i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello non s’apparecchi a grattarmi la tigna». E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: «Fatti ’n cost

Peste sia dei monaci! gridò don Gabriele. Sono stati inventati a posta per far perder tempo alla gente. Andiamo, torniamo in chiesa. Ah!... a proposito, qual è il confessionale del padre Piombini? Il terzo, a destra. Ci sono. Che Dio ti mandi la tigna! Don Gabriele sollecitò il passo e rientrò in chiesa.

E vorrebbe, , lavorare: entrare nella Nave-Scuola del Garaventa, dove tanti discoli furono accolti, e trovarono la salute del corpo e dell’anima nella disciplina del Maestro, nell’alito salso del mare. Ma si ammala, orrendamente, di tigna. La casa di cura, dunque, invece della Nave-Scuola. E la cuffia di pece, e le pinze martirizzanti. Solo?... Ah, no. La sua «mamma» è con lui.

Cammina, cammina, ecco farsi incontra a loro un cane che veniva via a scavezzacollo per quanto lo potevano portare tre gambe, che la quarta teneva attratta, come se storpio e' si fosse. Come venne più vicino, conobbero essere privo di un occhio, e tanto guasto dalla tigna da disgradarne San Lazzero. "Fermati, cane, gli dissero, e vieni a sentire il nostro piato."

Egli visse lungamente, amato e rispettato da tutti, mentre il suo infelice fratello, fatto segno al generale disprezzo, condusse giorni brevi e obbrobriosi su una cuccia dimenticata. Morì col cimurro, la gotta e la tigna. Morte degna d'una tal vita. Eppoi, figliuola, noi ignoriamo ciò che il destino ci riserba. Oggi siamo ricchi, ma domani possiamo esser poveri.

Più d'uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un'idea. La raccolsi, la misi sopra una palma aperta, vi feci su coll'altra mano due o tre gesti di negromante e la ributtai.

GUGLIELMO. Quando sarò entrato ti spezzarò le braccia con un bastone. ARMELLINA. Togli questo rinfrescamento! GUGLIELMO. Ah, lorda, rognosa, pidocchiosa! ARMELLINA. T'ho lavato il capo della lordura, tigna e pidocchi. GUGLIELMO. Se non te ne pagherò, possa sommergermi un'altra volta! non so che mi tenga che non rompa e spezzi le porte e non ti uccida di bastonate. Con chi parli?

Questa cuffia fu comunissima nei secoli passati, e lo fu ancora nel XVIII. Il motto proverbiale: Lu santu chi fa la tigna, fa la pici, ne è un ricordo storico, eloquente per attestare, nessun rimedio essere più sicuro pel male ribelle e deformante. Una vecchia canzone popolare deplora il rincaro della pece a causa dei troppi tignosi.