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Una testimonianza. Gherardo Ismera. Quella del vostro delirio? Mortella. Quella della mia anima bastava a me. Di dentro, dal profondo, con l’anima sveglia, col solo mio dolore, avevo scoperta la verit

Gherardo Ismera. No. Io solo posso giudicarmi. Chiunque possegga , per essersi conquistato a prezzo di travagli, considera come suo privilegio il diritto di punirsi o di farsi grazia; e non lo concede ad altri. Se tutti i miei atti mi valgono quanto mi costano, nessuno mi vale più di quello che voi svilite. Se guardo dentro di me, nello stesso orrore di me stesso io non mi sento menomato; anzi sento che il mio démone grandeggia l

Ma che demenza è la vostra? Mortella. Anche voi, anche voi, senza volere, l’imitate nel sonno. Gherardo Ismera. Che démone v’ha presa? Cessate, Mortella. Mortella. Vi ho visto dormire! E credevo che non dormiste più, che in fondo a qualche corridoio bianco aveste ucciso il sonno, come il sire di Glamis, come il sire di Cawdor. Gherardo Ismera. Perché sfuggite? Venite qui, Mortella.

Gherardo Ismera. Ma tacete, ma tacete! O vi schianto. Fuori di , egli balza e minaccia. Implacabile, l’altra riempie d’agonia l’aria che lo soffoca. Mortella. No! Ora un sussulto gli getta la testa indietro, e un altro, e un altro. È irrigidito, inchiodato su le reni. Si solleva, s’inarca, ricade. Il respiro non passa più a traverso i denti stretti. Il cuore sobbalza, non batte più, è vuotato.

Della grande specie solitaria, di quegli che voglion vincere in silenzio una virtù dinanzi a cui possano inginocchiarsi. La Vittoria in ginocchio! Una tale imagine sembra creata dall’ispirazione del suo spirito. Giana. Più che umano, dunque. Gherardo Ismera. Con un esempio più che umano, egli mi mostrò che comandare e obbedire sono le due arti più difficili dell’anima libera. Giana.

Non era il vostro compagno di giovinezza, il diletto? l’unico fratello dell’anima vostra? Gherardo Ismera. Certamente. Mortella. Come! Non avete nella voce una vampa d’amore? Non avete un sospiro di rimpianto? Gherardo Ismera. Perché dovrei menomare, con una dimostrazione che non mi conviene, un sentimento da me custodito intatto? Quale amore sopporta d’esser misurato? Mortella.

Lo riconosce, e trattiene a stento il grido, distaccandosi da Giana, indietreggiando ancóra. Ah, è lui, è lui! L’ospite si scopre il capo e s’avanza a traverso il vestibolo. È padrone di , nella sua semplice cortesia; ma qualche accento della sua voce tradisce il suo turbamento dominato. Gherardo Ismera. Mi perdoni, signora, se entro così. Sono io, Gherardo Ismera.

Veramente, è come forsennata. Mi fa paura. Or ora non aveva un viso di pazza? e il modo, e l’accento, e lo sguardo della manìa? Gherardo Ismera.

Egli è guardingo come qualcuno che saggia i suoi modi, non sapendo ancóra quale gli valga; ma tiene la sua voce nel tono più naturale. Mortella. Sono la stessa ancóra? Mi ravvisate? Forse mi rimane una gocciola di rugiada nel cavo di ciascuna mano. Sono la stessa? Gherardo Ismera.

Gherardo Ismera. Oh, che brutta storia! In cambio di tante belle storie che vi ho raccontate ai bei tempi! Siete ingrata, Mortella. Ma voglio essere il vostro medico come a quei tempi ero il vostro interprete. Bisogna che io risani la vostra imaginazione con una cura solare. Vi vedo supina per ore ed ore su la tavola scottante di quel vecchio oriuolo inerme. Mortella. Come ridete male!